Libertà e giustizia in Georges Bataille (*)

Carlo Chiurco

Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze, Università di Venezia

 

1. Premessa

Dovessimo indicare una parola chiave per poter accedere, almeno di primo acchito, all’universo filosofico di Georges Bataille, la migliore sarebbe senz’altro, a giudizio di chi scrive, violenza. La violenza è il nucleo essenziale di gran parte del pensiero novecentesco: escludendo la filosofia analitica e la fenomenologia husserliana, tutta la riflessione successiva a quest’ultima e che in essa trova la propria radice (ossia Heidegger e il pensiero ermeneutico-postmoderno) fa della violenza, della sua opposizione ad essa o viceversa della sua esaltazione, il proprio tratto caratteristico. Essenzialmente, come schema complessivo, possiamo affermare che il filone postmoderno che si oppone alla violenza si rifà a Heidegger, e identifica la violenza con la metafisica, perciò condannata senz’appello; ad esso appartengono tutte le forme di pensiero debole, destrutturato etc. Il filone postmoderno che viceversa la esalta, come luogo di senso originario della vita ma anche del pensiero, si rifà a Nietzsche, e, pur condannandola, ha verso la metafisica un atteggiamento più ambivalente, rimettendo volentieri in circolo alcuni aspetti del pensiero metafisico che gli paiono interessanti. A questa seconda corrente si può senza dubbio ascrivere anche il pensiero di B (1).

Non è possibile, tematizzando le nozioni di libertà e la giustizia in B., evitare di confrontarsi col tema della violenza. Si tratta di due concetti che l’Autore affronta in modo esplicito, sebbene egli li chiami in modo diverso, associandoli ad altri che, di primo acchito, non parrebbero coincidere del tutto con esse: la libertà essendo per lui sovranità e la giustizia dépense. È peraltro di grande importanza, mi pare, che simili questioni vengano affrontate in un contesto filosofico postmoderno, se si tien conto del ‘veto’ esistente, da Heidegger in poi, circa le questioni etiche: il che è possibile solo in virtù dell’appartenenza di B. alla seconda fra le due correnti postmoderne citate, quella che non teme di usare un linguaggio ‘metafisico’ o comunque di trattare – seppure, naturalmente, in modo affatto diverso – argomenti tradizionalmente legati all’universo della metafisica, quali appunto la libertà e la giustizia.

 

2. Libertà (sovranità: souveraineté)

a. La discontinuità

La libertà si configura, nel pensiero di B., come libertà ontologica prima di tutto. Non è certo una posizione isolata nel contesto del pensiero novecentesco: un autore diversissimo da B. come Wittgenstein fa del puro accadere del mondo, ad esempio, la prima proposizione del suo Tractatus. Invano, del resto, cercheremmo nei testi di B. parole come ‘essere’, ‘sostanza’, ‘fondamento’. La libertà, quindi, è nelle cose: è, per così dire, una condizione di natura. Questo particolare non è secondario per B., in quanto – con un atteggiamento certo mutuato da Nietzsche e da Schopenhauer – per lui la vita ‘autentica’ dell’uomo, ossia la sua condizione di provenienza da un lato, e la sua condizione finale dall’altro, consistono nell’identificazione pura e semplice con la totalità della natura, la totalità dell’organico: è uno streben diretto "all’indistinto, alla confusione degli oggetti distinti" (E, 25). La coscienza può precisamente "soffrire di non vivere nel mondo come un’onda nella molteplicità delle onde, inconsapevole degli sdoppiamenti e delle fusioni degli esseri più semplici" (ib., 17). La morte, l’erotismo, l’osceno, e insomma tutte le categorie più celebri del pensiero di B. hanno precisamente questo in comune: che sono tutte vie per raggiungere questo, che è lo stadio proprio dell’uomo. L’alienazione, perciò, si definirà precisamente in base a questo concetto: essa sarà cioè tutto quello che si oppone alla sparizione nell’organico. Quest’ultimo, ossia la totalità organica dell’essere, si propone come pura continuità, un "percorso dell’energia" (PM, 70). In base a tale criterio, allora, sarà in generale alienazione tutto ciò che è individuo e legato all’individualità, essendo quest’ultima precisamente la discontinuità dell’essere, l’essere discontinuo (E, 14 segg.). (E tuttavia, tale totalità è una totalità composta da esseri originariamente, o comunque irrimediabilmente, concepiti come separati – sì che ogni sintesi a venire verrebbe necessariamente pregiudicata come sintesi di opposti, appunto perché gli elementi che la compongono sarebbero originariamente irrelati (2).)

Due osservazioni possono essere fatte in merito a questo punto. La prima è che, tale ‘felicità della sparizione nell’organico’, potrebbe non essere poi così scontata. B. troverebbe, sul tema, un avversario illustre proprio in Nietzsche. Già nelle pagine giovanili di Su verità e menzogna, infatti, si può notare come la natura (assai simile alla "natura natrigna" leopardiana) sia piuttosto il nemico dal quale l’uomo debba guardarsi: "Forse che la natura non gli nasconde quasi tutto, persino riguardo al suo corpo, per confinarlo e racchiuderlo in un’orgogliosa e fantasmagorica coscienza, lontano dall’intreccio delle sue viscere, dal rapido flusso del suo sangue, dai complicati fremiti delle sue fibre? La natura ha gettato via la chiave, e guai alla fatale curiosità che una volta riesca a guardare attraverso una fessura della cella della coscienza, in fuori e in basso, e che un giorno abbia il presentimento che l’uomo stia sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido, insaziabile e, per così dire, sul dorso di una tigre" (3). E questo sentimento – ossia, che l’uomo cavalca sempre una tigre, e che l’esistenza nel suo complesso sia sempre vuoto orrore – ricompare in tutta la sua opera successiva (4). Si potrebbe perciò, in linea ipotetica, avanzare l’obiezione secondo la quale la ‘felicità’ nella sparizione dell’organico verrebbe a costituirsi come un ottimistico residuo ‘metafisico’ nell’opera di B. La contrapposizione tra i due autori, del resto, si svela anche nei simboli cui fanno riferimento: se per Nietzsche l’orrore è negli organi nascosti del corpo, per B. esso è al contrario nei corpi scarnificati e sventrati, ove ciò che è interno riemerge alla luce prepotentemente e violentemente come in un moto liberatorio (5).

La seconda osservazione è questa: viene da chiedersi se tale discontinuità, per B., sia o meno reale. Sia Nietzsche che Schopenhauer, infatti, pur in termini diversi, hanno al riguardo un’opinione negativa: esistono solo, rispettivamente, la vita o la volontà universali (6), e tutto il resto è "apparenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente di più" (7). La coscienza e l’individuo sono insomma illusione: che l’uomo sia, per Nietzsche, un "animale addomesticato" questo appunto indica, che l’uomo è animale, ossia in-coscienza, e perciò vita. Non così per B.: la discontinuità, per lui, è reale, anche se, allo stesso tempo, non per questo l’uomo cessa di essere meno ‘vita’ di quanto non lo sia per Nietzsche. Infatti la coscienza, la ragione nascono certamente dal caos (cfr. ad es. E, 37), la "determinazione fondamentale va" certamente "ricercata nella transizione dall’animale all’uomo" (ib., 29; cfr. anche LE, 24-25), ma non di meno tale discontinuità, tale transizione non sono in alcun modo illusorie. Questo gioca un ruolo importante nel pensiero di B., il quale, essendo un pensiero anarchico, ha di vista la liberazione e il godimento effettivo della libertà come propri scopi. Ora, tale consapevolezza può prodursi soltanto nell’individuo: da un lato, l’individuo deve riappropriarsi scientemente di questa sua prossimità all’organico dal quale proviene – ed è solo l’individuo che può farlo, in quanto dotato di coscienza: "L’intera esistenza è situata al di là di un senso, è la presenza cosciente dell’uomo nel mondo in quanto egli è non-senso, e non ha altro da fare se non essere quello che è" (N, 27). Dall’altro, è anche vero che a tale sparizione nell’organicità l’uomo sarebbe trascinato comunque dalle essenziali esperienze naturali dell’erotismo e della morte, che per B. coincidono con la sfera stessa del religioso, e quindi dalla legge stessa della natura. Ma proprio per questo deve trasformare tali esperienze in valore per la sua coscienza, non deve subirle passivamente, così come invece accade per la gran massa degli uomini e la totalità degli esseri irrazionali.

b. La legge della natura

La natura si mostra come un incessante processo in cui si alternano accrescimento e dispersione di energia, accumulazione e dépense; o meglio ancora, mostra che scopo e motore dell’accrescimento è proprio la dépense. Ogni organismo accumula le energie: è la fase della sua crescita. Ma a lungo andare è sempre e solo energia che si accumula per essere sprecata nei "tre lussi della natura", ossia "la manducazione, la morte e la riproduzione sessuata". "Di tutti i lussi concepibili, la morte sotto la sua forma fatale e inesorabile è certamente il più costoso. La fragilità del corpo degli animali, la sua complicatezza, ne espongono già il senso di lusso, ma tale fragilità e tale lusso culminano nella morte" (PM, 82). Lo spreco è quindi la legge fondamentale dell’essere: "Sulla superficie del globo, per la materia vivente in generale, l’energia è sempre in eccesso, la questione è sempre posta in termini di lusso, la scelta è limitata al modo di dilapidazione delle ricchezze" (ib., 72): in un’originalissima interpretazione del nostro esserci come ‘essere per la morte’, B. può così affermare che "fin dall’inizio, l’eccedente di energia, se non può servire alla crescita, è perduto" (ib., 79), e in ciò risiede precisamente l’origine del piacere, ché altro tale perdita, la quale non può minimamente essere ricondotta alla categoria dell’utile, non è (cfr. ND, 42).

Pertanto, è legge naturale lo spreco, la dépense. L’uomo la attua comunque, sia che non ne abbia coscienza, come succede alle società primitive o comunque legate al mito, dove non si ha percezione dell’individuo ossia della discontinuità dell’essere, sia nelle forme sociali e culturali che da tale percezione dipendono. La civiltà borghese è quella che più di ogni altra difende l’individuo e si costituisce attorno a lui, eppure anch’essa, alla fin fine, fa il gioco della vita universale: "Se l’esigenza della vita degli esseri (o dei gruppi) staccati dall’immensità vivente definisce un interesse al quale ogni operazione viene riferita, il movimento generale della vita viene non meno compiuto oltre l’esigenza degli individui. In definitiva l’egoismo è ingannato. Sembra prevalere e tracciare un limite irrimediabile, ma viene in ogni modo superato" (PM, 118) (8). E ancora: "La separazione degli esseri è limitata all’ordine reale. Solamente se rimango all’ordine delle cose la separazione è reale. Essa è in effetti reale, ma ciò che è reale è esteriore. ‘Tutti gli uomini, intimamente, non sono che uno’." (ib., 105n).

All’interno delle forme sociali e culturali che hanno percezione dell’individualità, pertanto, la forma dell’autentico si attua come accettazione consapevole della legge fondamentale della natura, ossia che tutto è, per essere ‘sprecato’, consumato, perduto: nella morte in forma assoluta, nell’erotismo in forma relativa.

Questa autenticità, come vedremo, si realizza sotto forma di giustizia; ma la giustizia presuppone la forma autentica della libertà e della consapevolezza, ossia la sovranità.

c. La sovranità

È indispensabile, per B., che l’individuo accetti consapevolmente l’esistenza del mostro che alberga in lui. Egli, in quanto individuo, si distacca, negandola, dalla violenza (ossia la natura, la vita) dalla quale proviene. E tuttavia, nonostante questo distacco, egli resta nel suo profondo violenza, anche in quanto individuo: "Grazie alla sua attività, l’uomo ha edificato l’universo razionale, ma sussiste pur sempre in lui un fondo di violenza. La natura stessa è violenta e, per ragionevoli che noi si divenga, possiamo sempre cadere preda di una violenza che non è la violenza naturale, ma la violenza di un essere che ragiona" (E, 39; corsivo mio). Detto altrimenti: l’essere dell’uomo consiste nell’individualità, cui si rifà la vita razionale e ogni specifico prodotto umano (il lavoro (9), l’arte etc.), nonché la sfera stessa dell’interiorità umana; ma questo suo stesso essere consiste di ‘universalità’, consiste di natura, ossia, come dice il testo stesso appena citato, di violenza, quella violenza che sopprime l’individuo come la verità che è l’intero sopprime l’alienazione che è il frammento isolato. L’uomo ha dentro di sé, poiché è natura, sia la tendenza alla crescita, da cui sorge l’individuo, sia quella all’autotoglimento nel tutto, attraverso l’eros e la morte. Riconoscere questo con la massima lucidità di pensiero, aggirando sia i tabù sia ciò che è impensato, orienta l’uomo sulla giusta strada verso la liberazione. Ora, quest’ultima non potrà che assecondare le tendenze disgregatrici, in quanto messaggere del ritorno alla totalità organica dalla quale proveniamo e che, insieme, noi stessi ‘siamo’. Ci sarà quindi uno sforzo autocosciente in direzione del massimo dispendio di energie, della massima dépense possibile: giacché più grande sarà lo spreco, più si sarà assecondata la tendenza fondamentale dell’esistenza, la legge generale della natura. Simbolicamente, la dépense diviene massima – e quindi simbolicamente assoluta, insuperabile e intrascendibile – nella lotta che due individui o due gruppi sociali compiono tra di loro attraverso la donazione simbolica del potlac.

 

3. Giustizia (spreco: dépense)

S’inserisce qui l’analisi compiuta da B. del significato delle cerimonie di sacrificio. Esso è precisamente questo spreco insensato di energie accumulate, scempio di beni e ricchezze – e financo vite umane – che presenta due forme, una più tarda ed una più originaria, la quale è appunto il potlac. Nella sua forma più tarda e più ‘classica’, quale noi la conosciamo, il sacrificio serve a propiziare; è, in qualche modo, una struttura ‘economica’, dove avviene uno scambio più che un vero dono. È un dispendio non inutile in se stesso, dove tracce di inutilità resistono a ricordare il legame con la forma originaria del sacrificio (10). Nella sua forma originaria, il sacrificio è invece dono – un ‘dono’ prossimo al dona ferentes virgiliano. Ossia, il dono è una sfida che un individuo o un gruppo sociale compiono nei confronti di un altro individuo o gruppo sociale, il quale deve rispondere con un dono più grande. B. fa l’esempio degli Indiani del Nordamerica: viene attuato un sacrificio grandioso di beni indispensabili (cani da slitte, canoe…), e vi si risponde con uno ancora più grande, uno spreco di risorse inimmaginabile (sacrifizi umani, lingotti di rame etc.). Questo perché il dono, in cui consiste il potlac, imprigiona il donatario. Egli ha ricevuto in dono lo spreco gratuito e pazzesco delle risorse, e si trova perciò ostaggio della magnanimità del donatore. Se vuole liberarsi, deve rispondere con un potlac, un dispendio ancora più grande (ND, 47; PM, 112-15): solo così si libererà della rete che il donatore ha steso sopra di lui, capovolgendo le sorti della lotta.

Quindi: a) la libertà è sovranità. Precondizione della sovranità è la conoscenza e l’accettazione 1) del nostro essere-natura, ossia del nostro provenire dalla totalità organica, cui apparteniamo essenzialmente, e dell’accidentalità della nostra condizione individuale; 2) della legge fondamentale della natura, che è quella di un accrescimento votato alla morte, la quale riguarda sempre e solo l’elemento individuale e non la totalità (è appunto il rientrare degli individui nella totalità) (11). In conseguenza di ciò, l’individuo non solo non si opporrà alle tendenze disgregatrici – che in realtà lo riaggregano al tutto organico – in lui presenti naturalmente. Farà di più, e scientemente: l’accettazione della dépense come legge fondamentale della natura non deve essere in alcun modo meramente passiva, bensì ricreata in forma assoluta dal soggetto. Per fare un esempio, egli non già morirà, bensì cercherà la morte. Il semplice sparire nella natura non è accettabile per B.: occorre che l’uomo decida per il negativo, ossia per un’esperienza-limite nella quale conoscere ed esperire una situazione di libertà assoluta: "Il rifiuto della mediazione, non ci fa cadere indietro nella natura… L’identità tra mezzi e fini, tra soggetto ed oggetto, che caratterizza la vita animale, non è mai assimilabile alla sovranità del non sapere: nel primo caso essa deriva da una completa subordinazione, nel secondo da un rifiuto totale" (12), giacché "Quel che non è cosciente, non è umano" (LE, 173). In ciò sta la nobiltà, la parte ‘etica’ del discorso di B.: nell’esercizio della negazione, del rifiuto come di una libera e maturata consapevolezza. Seguendo la legge fondamentale della natura, cioè lo spreco, ma ri-creandola nella sfera assolutamente autonoma della sua decisione, l’uomo farà della sua stessa esistenza uno spreco. Esso deve risultare però almeno intenzionalmente assoluto e infinito, ossia tale esperienza del negativo e del rifiuto deve possedere queste caratteristiche, essere "un eterogeneo così profondo ed estremo da non poter nemmeno essere formulato rigorosamente, ma soltanto colto in certe esperienze-limite… di dissipazione, di prodigalità, che rifiutano ogni appropriazione, come l’attività sessuale, la morte, il riso, l’estasi" (13). In realtà, è chiaro che solo la natura stessa, la totalità stessa dell’organico e della materia è, per sé, tale spreco infinito; e, tale "totalità dell’essere", "non è… conoscibile, ma…, in forme sia pure aleatorie, sempre parzialmente contestabili, ce ne è concessa l’esperienza" (E, 23) (14). Nell’attimo in cui l’uomo cerca di conseguire la dépense assoluta, è, in qualche modo, tutt’uno con la vera dépense senza fine che è la "totalità dell’essere". L’assolutezza di tale condizione è garantita dalla vittoria nella lotta tra donazioni sacrificali che è il vero potlac: più l’orgia di beni, di ricchezze e financo di vite è disastrosa, irrefrenabile, spaventosa, più ci avviciniamo alla condizione in cui tale spreco non può avere risposta, che è appunto il segno della vittoria in tale contesa, e quindi del raggiungimento, da parte dell’intenzionalità del donatore, dell’infinità e dell’assolutezza simboliche di tale intenzione. Come dice lo stesso B., "l’ideale sarebbe che un potlac non potesse venir ricambiato" (PM, 115). Questa condizione, in cui lo spreco raggiunge un punto tale da non poter ammettere più replica, è la condizione di sovranità, così detta sia perché si è avuto ragione dell’avversario, nella lotta sacra a chi dona-sprecando di più (l’avversario simboleggia il limite, il limite della donazione stessa del donatore, e quindi vincerlo significa conseguire una condizione illimitata, in cui la donazione del donatore appare liberata e infinita), sia perché è sovrano, signore, chi può sprecare infinitamente, al punto di "perdersi, perdere conoscenza, perdere la memoria di sé, l’interiorità a sé… e… non cercare più di farsi riconoscere" (15). La sua condizione, infatti, è, a rigore, la condizione stessa di Dio; ma questo, solo a patto che il suo sia uno spreco infinito, ossia talmente assoluto da giungere ad una specie di autostordimento – talmente assoluto da non avere bisogno del riconoscimento da parte di altri del suo essere spreco assoluto (come la parola ab-solutus indica del resto chiaramente), pena il suo essere non un vero Dio, ma "un Dio per la folla", prigioniero della dialettica hegeliana del riconoscimento, ossia del padrone e del servo (16).

In ciò è anche la giustizia, perché si rovescia l’impostazione economica classica, che vede il baratto, ossia l’equivalenza, come figura originaria dell’economia (cfr. ND, 47). All’origine dell’economia per B. sta invece sempre il dono, ossia ciò che è offerto e sprecato al tempo stesso (17).

La storia dell’uomo ha visto ovunque il sorgere di classi ricche e insieme aristocratiche, in quanto "la perdita ostentatoria rimane universalmente legata alla ricchezza come sua funzione ultima. Il rango sociale è legato, più o meno strettamente, al possesso di una fortuna, ma ancora a condizione che la fortuna venga parzialmente sacrificata a spese sociali improduttive quali feste, spettacoli o giochi" (ib., 50). Ad esempio, questo era il caso dell’artistocrazia romana, che doveva sostenere da sola le spese per l’equipaggiamento militare oltre a finanziare il complesso insieme delle feste popolari e collettive della comunità. Cos’è successo dopo, al decadere di queste forme sociali e culturali? "Nelle cosiddette società civilizzate, l’obbligo funzionale della ricchezza è scomparso se non in un’epoca relativamente recente. (…) Oggi, le forme sociali, grandi e libere della spesa improduttiva sono scomparse. Tuttavia, non bisogna concluderne che il principio stesso della dépense abbia cessato di esser posto come termine dell’attività economica" (ib.). "Lo sfoggio di ricchezza", infatti, non è cessato, ma "si fa dietro i muri, in conformità a convenzioni cariche di noia, deprimenti"; è divenuto, da spettacolo sociale, capace di fondare una comunità ed aggregarla, uno spettacolo individuale – lo spettacolo del pavoneggiarsi del singolo. L’invidia per le ricchezze, capace di accecare i popoli primitivi – ossia, in quel caso, l’invidia per un potlac più grandioso del proprio –, "la gelosia, da essere umano a essere umano, si libera come tra i selvaggi, con una equivalente brutalità: solo la generosità, la nobiltà sono scomparse e, con loro, la contropartita spettacolare che i ricchi ricambiavano ai miserabili" (ib., 51). In ciò è la miseria profonda del nostro tempo e della borghesia, la quale "si è distinta dall’aristocrazia in quanto ha accettato di spendere soltanto per sé, al proprio interno, cioè dissimulando le proprie dépenses, per quanto possibile, agli occhi delle altre classi" (ib.). In ciò è l’origine della vergogna, ossia del moralismo borghese, e la nascita della "spaventosa ipocrisia" della classe borghese, che "è riuscita solo a sviluppare la meschinità universale" (ib., 52). La borghesia si fonda sul sentimento che l’accumulazione fine a se stessa è giusta: ciò, oltre a violare la legge fondamentale dell’esistenza, conduce all’alienazione della separazione dal tutto organico, da un lato, e all’ingiustizia dall’altro, giacché scopo dell’accumulazione è la dépense. Il ristabilimento della libertà, pertanto, ossia la fuoriuscita dall’alienazione e il conseguimento della sovranità, è con ciò stesso il ristabilimento della giustizia, sotto forma di ripristino della dépense come della verità essenziale di ogni accumulazione e crescita.

 

4. Le contraddizioni della sovranità e della dépense

a. La contraddizione della sovranità

L’argomentazione di B. si concentra, come si è visto, su di un punto fondamentale: la naturalità dell’uomo, il suo essere natura, ossia violenza. B. però non segue la linea argomentativa di Schopenhauer o Nietzsche, i quali, partendo dall’individuo, di fatto lo dissolvono nell’universale magma della totalità organica. B., accanito lettore di Hegel attraverso la mediazione di Kojève, non commette un simile errore d’impostazione, ma parte dall’evidenza indubitabile, ossia dalla totalità, che egli concepisce in forma rigorosamente trascendentale. Ossia, è in quanto la totalità è trascendentale, e quindi il campo semantico inoltrepassabile dal quale nulla può sfuggire, e che si lascia oltre solo il nulla, che l’uomo è giocoforza totalità, ed essendo questa la natura (la vita, la violenza, il gioco dell’energia…), allora tali determinazioni si applicano anche all’uomo.

E tuttavia, ciò ancora non basta a fare del discorso di B. un discorso realmente liberatorio: giacché se non si esce dall’ambito della natura, ossia di questo trascendentale che è la totalità organica, lo stesso movimento liberatorio dell’uomo, e la sovranità che lo corona, non acquisiscono una vera importanza che possa fungere da stimolo ‘etico’, per così dire, per intraprendere tale percorso. L’affermazione della libertà e della sovranità abbisognano della consapevolezza, perché se la sovranità è solo un fatto bruto, se è solo un gioco della materia, non vale nulla, non ha alcun senso per l’uomo, in quanto, per B., egli è realmente distinto dal gioco della materia in quanto coscienza, anche se, dal punto di vista dell’essenza, ciò non si può sicuramente affermare ed anzi è un errore.

La stessa sparizione nell’organico e nell’indistinto ha importanza solo in quanto vi sia una cultura come qualcosa di radicalmente diverso dalla totalità organica, in grado di darle appunto ‘importanza’, e in grado di pensare in generale, ancora più semplicemente, ‘qualcosa’ come ‘l’importanza’. È l’eterna pretesa del mito del buon selvaggio: come la materia è pensabile solo a partire dalla forma, così il buon selvaggio, l’‘innocenza della vita’ (un’innocenza da pensarsi al di là del bene e del male, e quindi da estendersi a tutti gli aspetti violenti, raccapriccianti, disgustosi dell’esistenza), o qualcosa di ancora più radicale come la felicità inconsapevole dell’organico, è pensabile solo a partire da una società complessa e da un pensiero autocosciente. Come una società complessa è il fondamento per pensare il "buon selvaggio", così la coscienza è il fondamento per poter pensare la "sparizione nell’organico e nell’indistinto". È il capovolgimento dell’impostazione di B., per il quale l’importanza della sparizione nell’organico è certamente opera della coscienza, ma sulla base del suo provenire, a proprio turno, dall’organico (una sorta di ‘richiamo del sangue’). Il che è come affermare che tale importanza è prima posta e poi tolta, giacchè la coscienza e ciò che ne proviene hanno valore esclusivamente sulla base del riconoscimento dell’autonomia della coscienza stessa. Quindi, affinché il ritorno all’organico abbia realmente importanza per l’uomo, occorre che sia opera sua e soltanto sua, creata dalla coscienza sulla base della propria autonomia: il che equivale al riconoscimento che la coscienza ha carattere trascendentale.

Da un lato, quindi, abbiamo che la ‘libertà’ di B. (ossia lo sparire nell’organico), per avere importanza, presuppone la libertà come libertà della coscienza, eppure si configura altresì come libertà dalla coscienza. L’importanza di una simile decisione, infatti, per avere valore, non può essere presente che nella coscienza: essa in questo modo presuppone, di quest’ultima, l’autofondarsi, la trascendentalità, il non dipendere, per essere, da altro– come, ad esempio, dalla totalità dell’organico da cui proverrebbe secondo B. È solo in questa autonomia e autofondatezza della coscienza, pertanto, che può vivere il valore di una decisione come quella della libertà batailliana di sparire nella totalità dell’organico. Se non che, B. pone la libertà al di fuori della coscienza, ossia precisamente in tale atto di autotoglimento e sparizione della coscienza stessa: presuppone così da un lato la libertà come libertà della coscienza e in essa (a ciò che la decisione dello sparire abbia effettivamente valore), per porre poi la libertà come fuori di essa, nell’atto dello sparire e dell’autotoglimento; giacché è solo allora, in questo autotoglimento che è la raggiunta dépense infinita, che secondo B. il conseguimento della sovranità si configura come reale a tutti gli effetti.

Come dire che la libertà, posta nell’atto dell’autosoppressione, proviene da una coscienza (la quale, pure, ben si decide a questo: il che contraddice l’idea di Derrida secondo la quale B. non peccherebbe di "volontarismo" (18)), la quale allora non è libertà se la libertà è autenticamente presente, secondo B., solo in quell’atto; libertà che, pure, si deve aver peraltro già affermata in precedenza, se l’importanza di una tale decisione può esistere solo agli occhi di una coscienza autenticamente autonoma e autofondata. Laddove tale atto, semmai, non fa che ribadire il suo dipendere, in quanto libero, dalla coscienza in quanto trascendentale e libertà – in una parola, non fa che ribadire, della coscienza in quanto trascendentale, l’autentica e sola sovranità.

Infine, si può osservare che il percorso indicato da B. verso il conseguimento della libertà (ossia della signoria) è una petizione di principio: è solo attraverso il potlac che il soggetto si fa assoluto, libero, infinitamente capace di sprecare; ma perché ciò avvenga il potlac dev’essere un potlac assoluto, ciò di cui evidentemente è capace solamente una soggettività che sia già per se stessa assoluta.

b. La contraddizione della giustizia

Un’altra contraddizione è riscontrabile per ciò che riguarda la giustizia, ossia il concetto batailliano di dono che sta alla base del potlac. È facile vedere che la distinzione, operata da B., tra dono e scambio (ossia tra l’economia e la civiltà fondate sul potlac e l’economia e la società fondate sull’accumulazione), in realtà non esiste, ossia il dono batailliano è in realtà uno scambio – meglio, è una negazione del dono. Il potlac è infatti lucidamente concepito da B. come una lotta, e precisamente una lotta di potere: "[Il donatore] ha sul donatario il potere che il dono gli ha conferito. Ma quest’ultimo è tenuto a distruggere questo potere ricambiando il dono. La rivalità comporta anche la contropartita di un dono più grande: per avere la sua rivincita, il donatario non deve solamente liberarsi, ma deve a sua volta imporre il ‘potere del dono’ al suo rivale"; sì che propriamente si tratta di un donare ad usura (PM, 114). Abbiamo già visto che la sovranità si consegue nel potlac simbolicamente assoluto, simbolo di uno spreco intenzionalmente assoluto e infinito che rende la soggettività che lo compie, in tutto e per tutto, identica a Dio e alla "totalità dell’essere". Ma appunto, di puro potere si tratta: il potere del dono, nella finta abdicazione al potere rappresentata dall’apparente spreco che è la dépense. La ricchezza "è interamente diretta verso la perdita nel senso che questo potere è caratterizzato come potere di perdere" (ND, 49; corsivi miei). La lotta finisce con un vincitore che annienta l’altro: uno dei due uomini o gruppi sociali, quello che non riesce a rispondere alla trappola del dono recato, si trova completamente in balia dell’altro. Magari non fisicamente annientato, ma in una situazione forse ancora peggiore, perché puro ostaggio in balia della volontà del rivale e però cosciente di esserlo (dalla contrapposizione sorge la coscienza di sé come di un differente, sì che egli si sa tale anche dopo, quando è ormai sotto il giogo del vincitore).

Orbene, l’obiezione, a questo punto, è semplice ma devastante: stanti così le cose – ossia, stante che la lotta del potlac e la dépense hanno un fine ben concreto, l’annientamento dell’altro e la signoria su di esso, onde conseguire l’identificazione con la totalità dell’organico e la sparizione in esso; stanti così le cose, in che modo si potrà ancora parlare dell’inutilità del potlac e della dépense? Non paiono essi, al contrario, la più concreta (e crudele) forma di scambio e di accumulazione, e non di dono? Il più efficace stratagemma di potere, in mano al "signore" hegeliano? Ciò che è più paradossale, è che è B. stesso a dircelo: "Da una parte dobbiamo dare, perdere o distruggere. Ma il dono sarebbe insensato (di conseguenza noi non ci decideremmo mai a dare) se non prendesse il senso di un acquisto. Bisogna dunque che il dare diventi un acquistare un potere. Il dono ha la virtù di un superamento del soggetto che dà, ma in cambio dell’oggetto dato, il soggetto si appropria del superamento; egli considera la propria virtù… come un potere che gli appartiene ormai" (PM, 113). Le analisi del ‘sacro’, e delle civiltà costruite su di esso, compiuti da René Girard anni dopo l’opera di B., del resto, confermano proprio questo: che, dietro l’apparente prorompenza del richiamo all’‘immediatezza dell’esistenza’ che tanto ha sedotto il vitalismo e l’irrazionalismo novecenteschi, dietro l’apparenza di una ‘libertà assoluta’, il sacro, in tali culture, è una concretissima, totalitaria e feroce macchina costruttrice del potere, della società e dell’identità culturale (19). È proprio vero: quello dei doni è un "non senso apparente" (ib., 114).

Infine: se il ‘dono’ ha per conseguenza l’annientamento dell’altro, si può ancora parlare di dono? Un dono presuppone un donatario: altrimenti, ma è proprio il caso di B., non di dono si tratta, ma dello splendore autoreferenziale della soggettività assoluta sopra un mondo trasformato in deserto.

 

5. Conclusione

Il percorso della filosofia libertaria di B., perciò, si configura come impossibile. Il suo stesso linguaggio tradisce l’impossibilità di uscire dall’economia dello scambio e dell’accumulazione, ossia da ciò che per lui è l’alienazione, non meno violenta della violenza del mondo primitivo basato sul potlac. La stessa libertà che egli crede di vedere nella violenza scatenata, priva di ostacoli, non c’è, è impossibile – ossia, non è la gratuità sperata, ma la forma più sottile, crudele, pervasiva della prigionia e dell’accumulo.

Alla fine, torniamo al punto di partenza, ossia alla violenza, al suo ruolo centrale. La libertà non può essere lo scatenamento privo di argini della violenza: tale posizione si fonda infatti su questo pensiero, che la violenza è, da un lato, la legge originaria del reale e il significato stesso della "totalità dell’essere"; dall’altro, tanto vale, visto che violenza vi è comunque, essendo condizione originaria e intrascendibile, che tale violenza si scateni, ossia che l’atteggiamento violento divenga il fondamento stesso della vita morale dell’uomo. Questo pensiero presuppone insomma la fede nell’originarietà della violenza: sì che la libertà sarà, coerentemente, eliminare ogni ostacolo alla messa in pratica della massima violenza possibile, all’instaurarsi del regno del chaos.

Ma la violenza non è né può essere l’originario. Ciò significa che la situazione perfetta vagheggiata da B. di un ‘potlac non ricambiabile’ – la quale presuppone uno spreco infinito da parte di una soggettività infinita – non si può dare, e ciò a priori; ossia, un potlac è sempre ricambiabile. E proprio perché la violenza non può essere l’originario, la libertà non è la libertà della violenza, ma la libertà dalla violenza. L’alternativa batailliana tra ‘dono’ e scambio – ossia tra lo spreco e il baratto, il dare avendo in vista l’utile e il dare gratuito – si rivela in realtà un’alternativa tra due forme di scambio. Per B., il semplice scambio è forma dell’alienazione, e quindi è violenza fatta, più che nei confronti dell’altro, nei confronti della verità della vita. Ma se tale verità è in realtà la violenza, ne risulta che lo scambio è l’occultamento della violenza, nell’illusione di sterilizzarla attraverso l’innocuità dello scambio stesso. Il ‘dono’, invece, elimina tale occultamento e tale illusione, ma si giunge allora alla paradossale conseguenza per la quale ciò che per B. è alienato, ossia lo scambio, nonostante possa portare a forme di oppressione come ad esempio lo sfruttamento operato dalla borghesia (che del valore assoluto dello scambio è insieme l’origine ed il prodotto) nei confronti della classe operaia, tuttavia, in se stesso, proprio perché occultamento della violenza essenziale della "totalità dell’essere", di suo tende a porsi come freno alla violenza stessa; laddove proprio ciò che toglierebbe tale alienazione, ossia il ‘dono’, porterebbe per coerenza al massimo scatenamento della violenza possibile. Lo ha perfettamente in chiaro lo stesso B., quando parla della società organizzata sul modello militare, un fulgido esempio della quale è dato dall’Islam (20).

Il superamento dello scambio non può quindi stare nel ‘dono’ che è, paradossalmente, nient’altro che lo scambio stesso liberato da ciò che tenderebbe a trattenerlo dal degenerare in fagocitamento e in annientamento dell’altro, e anzi reso libero e insieme in dovere di procedere verso tale degenerazione. Può esistere, invece, solo nel dono che non è scambio, e che però fonda anche quest’ultimo: il dono di cui lo scambio è la ‘corruzione’, il punto di vista oggettivante – e in questo senso effettivamente ‘economico’, barattante. Effettivamente, questa sola libertà è la libertà autentica, la libertà di donare – che non chiede in cambio, né tantomeno ingaggia una lotta per essere, proponendosi per di più come fine l’annientamento dell’altro, e quindi del donare stesso.

 

 

Note

(*) Abbreviazioni usate per citare lo opere di Bataille (in ordine cronologico di pubblicazione): PM=La parte maledetta, Bertani, Verona 1972 (comprendente anche ND=La nozione di dépense, alle pp. 41-57); E=L’erotismo, SE, Milano 1986; N=Su Nietzsche, ib. 1994; LE=Le lacrime di Eros, Bollati Boringhieri, Torino 1995. back

(1) Ossia, la metafisica, pur tacciata di imperialismo "prometeico" e "icariano", resta pur sempre meno alienata, nella prospettiva di B., rispetto alla società borghese: cfr. ad es. i passi in PM, pp. 50 (a proposito della "funzione spettacolare" di chiese e monasteri "nel medioevo") e pp. 163-64 (sullo stesso tema). back

(2) Si cfr., tra i tanti, questi passi: "Il consumo è la via tramite la quale comunicano esseri separati. Tutto traspare, tutto è aperto e tutto è infinito, tra coloro che consumano intensamente. Ma perciò nulla conta, la violenza si libera e si scatena senza limiti, nella misura in cui il calore aumenta" (PM, 105); "Tra un essere e l’altro vi è un abisso, vi è discontinuità. Questo abisso si pare, per esempio, tra me che parlo e voi che mi ascoltate. Noi tentiamo di comunicare, ma nessuna comunicazione tra noi riuscirà a sopprimere una differenza costitutiva. Se voi morite, non sono io a morire. Siamo, voi e io, esseri frammentari" (E, 14). back

(3) F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, Adelphi, Milano 1991, p. 229. back

(4) È anzi significativo come ne La nascita della tragedia (Adelphi, Milano 198810, p. 54) compaia sì l’immagine del "coro di Satiri, come coro di esseri naturali che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni civiltà" a simboleggiare la "consolazione" per la quale "in fondo alle cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa": ma si tratta per l’appunto di una consolazione anzitutto – che è proprio l’accusa qui mossa a B. –, e di una "consolazione metafisica", come ha a dire lo stesso Nietzsche, in secondo luogo (corsivo mio): sì che, proprio per i caratteri sottolineati, il suo pensiero successivo abbandonerà risolutamente ogni consolazione ed ogni metafisica. back

(5) A questa tematica sono particolarmente collegate, tra le altre, due opere di B., LE e L’ano solare, SE, Milano 1993. In quest’ultima, un immaginario ‘occhio’ conoscitivo emerge – quasi uno spostamento verso l’alto e verso l’esterno della cartesiana ghiandola pineale – alla sommità del capo. La morte come putrefazione è così leggibile come un movimento ‘liberatorio’ dell’‘interiorità’ rimossa del corpo e dei suoi organi. Si potrebbe peraltro obiettare a B. come tale attività, alla fine, lasci pur sempre uno scheletro, ossia un chiaro simbolo di permanenza inviolata della persona proprio di contro all’infierire dell’attività nullificante del tempo. back

(6) La volontà universale di Schopenhauer, peraltro, è pur sempre una causa, ed anzi una vera e propria ‘causa prima’, contro la quale Nietzsche lancia la propria critica: cfr. ad es. La gaia scienza, n. 127, Adelphi, Milano 19864, pp. 131-32, e soprattutto n. 99, p. 106: "…l’indimostrabile teoria di una volontà unica…". back

(7) Ib., n. 54, p. 73. back

(8) Sembrerebbe un discorso in qualche modo vicino alla logica darwiniana della "selezione naturale", e indubbiamente è così. Ad esempio, B. afferma: "La comunità [ossia il corrispettivo della specie] soltanto è preservata dalla rovina. La vittima è abbandonata alla violenza" (PM, 105). È però da osservare, rispetto ad una simile logica, una maggior finezza da parte del darwinismo, per il quale la sopravvivenza è sì della specie, ma nei termini di una trasmissione del patrimonio genetico degli individui che sono riusciti, adattandosi in forme nuove o migliori al proprio ambiente, a superare la legge della "selezione naturale". back

(9) Sul lavoro (e la produzione) come categoria fondamentale, in B., dell’asservimento dell’uomo, in rapporto alla dialettica servo-padrone della Fenomenologia dello Spirito, cfr. il saggio di J. Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale. Un hegelismo senza riserve, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990 (rist. 1998), pp. 325-58. back

(10) Si può citare l’esempio degli Aztechi, ove sussiste spreco, oltre che nel sacrificio delle vittime umane in se stesso (il quale, appunto, è anche ‘economico’), nel fatto che queste, anteriormente all’olocausto, siano fatte vivere splendidamente, in modo davvero regale. Sapendo che dovranno comunque morire, è proprio in ciò che si manifesta, qui, il residuo di dépense presente nel rito. back

(11) Cfr. PM, 87: "In principio, l’esistenza particolare rischia sempre di mancare di risorse e di soccombere. A ciò si oppone l’esistenza generale le cui risorse sono in eccesso e per la quale la morte è un non senso"; E, 24: "La vità è accesso all’essere: se la vita è mortale, la totalità dell’essere non lo è. La vicinanza della totalità, l’ebbrezza della totalità dominano la considerazione della morte". back

(12) M. Perniola, Philosophia sexualis. Saggi su Georges Bataille, Ombre corte, Verona 1998, p. 30. back

(13) Ib., p. 24. back

(14) Siffatta esperienza è, massimamente, l’esperienza sacra: "Il sacro è esattamente la totalità dell’essere rivelato a coloro che in un rito solenne contemplano la morte di un essere frammentario" (E, 22). Ma il sacrifizio è appunto una dépense, una forma intenzionalmente infinita ed assoluta di dépense (e il potlac è a sua volta sacrifizio). back

(15) J. Derrida, Dall’economia…, cit., p. 343. back

(16) Il riconoscimento è ancora una forma di ‘avarizia ontologica’, legata alla paura del dissolvimento totale nel mettersi in gioco (e qui starebbe, secondo Derrida, la differenza tra la sovranità di B. e la "signoria hegeliana", la quale sì rischia, si mette in gioco, ma vuole "conservare se stessa, raccogliersi o raccogliere il proprio beneficio di sé o del proprio rischio": op. cit., p. 342). B., coerentemente, afferma allora che non bisogna restare "condannati a farci ‘riconoscere’, a voler essere un Dio per la folla… Se si va fino in fondo, è necessario cancellarsi, subire la solitudine, soffrirne duramente, rinunciare ad essere riconosciuto: essere a questo riguardo come assenti, insensati, subire senza volontà e senza speranza, essere altrove". back

(17) L’osservazione, anche dal punto di vista economico, è pertinente: se si osserva l’intervento attuato da Roosvelt sull’economia americana negli anni ’30 sulla scorta delle teorie di Keynes, o anche l’idea di fondo del Piano Marshall, si ha precisamente che il motore, ciò che fa da starter per l’economia, è un intervento gratuito (rispettivamente, negli esempi addotti, quello dello Stato che investe in infrastrutture a costo zero, e quello degli USA che donarono merci, sempre a costo zero, per far ripartire il mercato europeo dopo il 1945). back

(18) La bonomia di Derrida dipende da una supposta impossibilità di fare a meno dei concetti classici della filosofia, pur essendo essi alienati ("Noi non possiamo, B. non poteva, né doveva disporre di alcun altro concetto, e nemmeno di alcun altro segno, di un’altra unità della parola e del senso"); inoltre "Sarebbe possibile anche astrarre, nel testo di B., tutta una zona, attraverso la quale la sovranità resta presa in una filosofia classica del soggetto e soprattutto in quel volontarismo che, come Heidegger ha mostrato, si confondeva ancora, in Hegel e in Nietzsche, con l’essenza della metafisica" (op. cit., p. 345). Resta il fatto che, per B., la sparizione nell’organico dovrebbe, come si è visto (cfr. sopra il § 3 e la nota 15), realizzarsi in forma di cosciente autotoglimento assoluto della coscienza stessa in uno stordimento estatico, pena il suo costante dipendere dal riconoscimento: a mio parere, è assai difficile non vedere in ciò il culmine del volontarismo – magari sottile, perché si ha qui un’affermazione della volontà tramite un movimento di (auto)sottrazione e non di enfatica imposizione – ed anzi un volontarismo assoluto. Cfr. anche il § seguente nel testo. back

(19) L’opera di Girard è opposta a quella di B.: se la prima è una radicale demistificazione del sovrasignificato che il vitalismo e l’irrazionalismo novecenteschi hanno voluto vedere nel ‘primitivo’, quella di B. giunge ad una esaltazione mitizzata dello stesso e della preistoria (alla quale è specialmente dedicato LE) nel nome di una "filosofia dell’origine" (M. Perniola, cit., p. 140). back

(20) Cfr. PM, 101: "Una società veramente militare è una società di impresa, per la quale la guerra ha il senso di uno sviluppo di potenza, di un’avanzata ordinata dell’impero. È una società relativamente mite, essa introduce nei costumi i ragionevoli principî dell’impresa, il cui fine è dato nel futuro, ed esclude la follia del sacrificio. Niente è più contrario all’organizzazione militare delle dilapidazioni della ricchezze rappresentate da ecatombi di schiavi". Per l’esempio dell’Islam cfr. ib. le pp. 127-30, e spec. quest’ultima. back