Socrates as therapist

Abstract

The article is devoted to a critical analysis of Lacan’s interpretation of Socrates’s philosophical figure. According to Lacan, in Plato’s writings Socrates plays a role similar to that of a therapist. If so, this role brings to the fore a dimension of philosophical discourse that usually stays in the background: the dimension of desire and its relations both to the subject and to the truth. If it is impossible to rule out desire and its relations from philosophical and dialogical practice, then absolutistic claims concerning the search for truth fail.

 

Socrate analista (*)

 Fabio Polidori
Università di Trieste, Dip. Filosofia

 

Io dovrei parlare di Socrate. In realtà non so quanto parlerò di Socrate; e, se ne parlerò, ne parlerò comunque indirettamente, attraverso un altro; un altro personaggio, che ne parla, le cui parole anche nel suo caso sono state poi trascritte, un po’ come nel caso di Socrate. Ad ogni modo questa è solo una analogia che mi serve per introdurre questo altro che parla di Socrate attraverso il quale parlerò di Socrate, e che è Jacques Lacan. Non mi dilungherò su di lui, su quanto ha pensato e prodotto intorno alla psicoanalisi e anche alla filosofia – ci vorrebbe ben più di una lezione –; oltretutto non è di lui che voglio parlare, ma vogliamo sentirlo parlare di Socrate. E forse anche qualcosa in più: vogliamo che faccia parlare Socrate, vogliamo sentire come fa parlare Socrate, cosa gli fa dire, come si può farlo parlare oggi.

Naturalmente la questione è anche: come si può far parlare Socrate all’interno del discorso psicoanalitico? Ma è un aspetto che toccherò solo marginalmente, e quasi soltanto per curiosità. Quel qualcosa in più che invece cercherò di mettere a fuoco, sempre attraverso Lacan ma con intenzioni diverse dalle sue, ha invece a che fare proprio con il discorso filosofico: con il modo in cui Socrate abita il discorso filosofico, con il modo in cui il discorso filosofico continua a ospitare in sé la "figura" di Socrate. La "figura" di Socrate: non il suo pensiero, non le sue parole, non i significati o i tratti della sua personalità, ma il suo ruolo, il suo posto. Come se insomma, è l’ipotesi che voglio discutere oggi, Socrate – non il personaggio storico ma, ripeto, la "figura" – potesse tenere un luogo, coincidere addirittura, forse, con un luogo, e cercheremo di vedere quale, del discorso filosofico.

Ma prima cerchiamo di contestualizzare, molto in sintesi, Socrate in rapporto a Lacan, o viceversa. Dal 1953 al 1980 Lacan tiene annualmente un seminario, dedicato ad analisti in formazione e non, cui partecipano anche personaggi molto noti del mondo della filosofia. Nel 1960-1961 Lacan decide di dedicare il seminario alla questione del transfert.(1) L’anno prima il seminario era stato dedicato all’etica della psicoanalisi, e una buona parte, verso la fine, era stata condotta attraverso un lungo commento di Lacan all’Antigone di Sofocle.(2) Questo commento gli era servito anche per mettere a fuoco la questione della morte a partire dal tragico e, appunto, attraverso la figura tragica di Antigone. Quasi a prolungare la sua permanenza presso la grecità, il seminario sul transfert si apre con l’annuncio che buona parte delle "lezioni" – alla fine risulteranno essere più della metà – verranno affrontate attraverso il commento di un dialogo di Platone, il Simposio. Si tratta, rispetto al commento dell’Antigone, di un prolungamento, ma fino a un certo punto; perché, mentre il desiderio di morte di Antigone era stato letto attraverso i tratti tragici del personaggio, il desiderio di morte che Lacan, quasi subito all’inizio, ci fa vedere in Socrate – anzi: attraverso cui introduce la figura di Socrate – assume un aspetto del tutto diverso. Socrate non è affatto un personaggio tragico nel senso di Antigone. E a questo proposito Lacan ci ricorda che Socrate è uno che con la dimensione del tragico ha ben poco a che fare; anzi, dice Lacan, non ne capisce niente: e ci fa pensare per esempio a quello che ne scrive Nietzsche, il quale, come è noto, fa risalire a Socrate la fine della tragedia e l’inizio della razionalità e della decadenza. E ci rimanda addirittura allo stesso Platone, il quale, nel Gorgia, ce lo rivela, facendo fare a Socrate la parte di colui che liquida la tragedia in poche righe, e come se fosse una "retorica come un’altra". (3) E tuttavia, insiste Lacan, c’è un desiderio di morte in Socrate. A leggere l’Apologia sembra davvero, sulla base delle risposte che Socrate dà ai suoi accusatori e ai suoi giudici, che in fondo non gliene importi molto di salvare la pelle; anzi, sembra di trovarci di fronte, dice Lacan, alla "natura enigmatica di un desiderio di morte".(4)

Cosa vuol dire? Di quale natura si tratta? Per Lacan, questa natura del desiderio di morte in Socrate ha a che fare essenzialmente con la sua atopìa, con il suo non avere luogo, secondo una celebre espressione di Platone. E, soggiunge Lacan, soltanto un demone (altro elemento difficile a collocarsi, né uomo né dio, lo vedremo meglio più avanti; e comunque è ciò che costituisce la natura di Socrate, lui stesso lo dice) "sostiene l’atopìa di Socrate".(5)

Questi due termini, atopìa e dàimon, sono dunque quelli che cercheremo di tenere presenti e di cui ci serviremo per gettare uno sguardo sulla figura di Socrate, sempre che ce ne sia una, e comunque tenuto conto che forse non ce n’è una sola. Dunque, come dicevo prima: non si tratterà tanto di inquadrarla, di delimitarla o di chiarirla, questa figura; quanto piuttosto di ritrovare in essa qualcosa che ha a che fare, più che con un personaggio, con un "luogo" (lo chiamo così; potremmo anche chiamarlo "aspetto" o "dimensione") del discorso filosofico. Ciò che "sostiene" Socrate – uso l’espressione di Lacan di cui va mantenuto il doppio senso: nel senso di ciò da cui Socrate è sostenuto, la sua "natura"; ma anche nel senso di ciò che Socrate sostiene: sostenere come si sostiene una parte, un ruolo – è forse anche ciò attraverso cui si sostiene il discorso filosofico. Ciò che sostiene il discorso filosofico: nel senso, se vogliamo, di ciò che sta sotto (potremmo chiamarlo forse "fondamento"?), e che perciò non si vede, di ciò che non si dichiara. Con un po’ di azzardo, si potrebbe dire: di ciò che il discorso filosofico rimuove, e cioè di ciò che, proprio per questo e secondo una modalità niente affatto esplicita, continua tuttavia a parlare nel discorso filosofico. E con questo forse diventa un po’ più chiaro l’uso che possiamo fare di Lacan, al di là del fatto di riportare quanto dice e tenuto conto che non si tratta necessariamente di assumere gli stessi obiettivi. Lacan vuole parlare del transfert, e lo fa attraversando Socrate; tutto quel che dice è in fondo diretto in questo senso. Per noi si tratta invece di una posta in gioco forse più alta: e cioè di riuscire a individuare in Socrate e attraverso le parti che sostiene nel Simposio di Platone (ma forse non solo) qualcosa – la chiamo una "figura", ma è anche una modalità, anche una strategia – del discorso filosofico.

Comunque, tanto per sapere come finisce con il Socrate di Lacan: alla fine del Simposio, Lacan gli fa fare la parte dell’analista, gli fa fare il ruolo di colui che dà, in senso vero e proprio, in senso analitico, una interpretazione ad Alcibiade. A questo punto, alcune cose del Simposio andrebbero magari ricordate, al di là del fatto che questo dialogo platonico è famoso soprattutto perché vi si parla dell’amore. E se ne parla in maniera alquanto rocambolesca, attraverso vari scenari, e anche qualche colpo di scena. In breve: vari personaggi, tutti ovviamente di rango, gente della buona società, si riuniscono a casa di Agatone; questi, il giorno prima aveva vinto le gare tragiche. Tutti avevano festeggiato con lui e si erano sbronzati a tal punto che all’indomani, riunitisi per banchettare, decidono di non ubriacarsi; non ce la fanno più, non reggerebbero una seconda sbornia. E decidono di parlare di Amore; con un certo ordine, incominciando da destra verso sinistra. Insomma, si danno delle regole. Quando tocca a Socrate, che è l’ultimo, questi osserva che fino a quel momento tutti avevano fatto l’elogio di Amore; il che significa, appunto, che lo hanno elogiato, ma non per questo, anzi, proprio per questo non hanno detto la verità su Amore. E Socrate, prima di incominciare il suo discorso, si schermisce: certo non può mettersi a parlare ora, dopo Agatone (che è un maestro di eloquenza), e alla stessa maniera, negli stessi termini, senza rischiare figure meschine. E così decide di non fare un elogio di Amore; vuole parlarne bene, certo, ma vuole soprattutto dire la verità. Dunque comincia, a modo suo, quel modo che tutti conosciamo bene: Amore è amore di qualcosa o di nulla? Di qualcosa. Di qualcosa che si possiede o no? Certamente no. Ma se Amore per esempio desidera la bellezza, vuole dire che non ce l’ha; ma allora Amore è brutto… E proprio qui Socrate si ferma. Cambia registro. Forse per non deridere troppo Agatone (era a lui che faceva le domande); forse. Comunque si ferma e si mette a riportare il famoso discorso di Diotima (sul quale ritornerò in seguito). Finito il discorso, ecco il colpo di scena: entra Alcibiade, altro personaggio di spicco nella Atene di allora, un personaggio tanto importante – e, in quell’occasione, anche tanto ubriaco – da modificare le regole: si mette infatti a parlare non di Amore, ma di Socrate. Cioè del suo oggetto di amore. E tutto ciò – dettaglio non trascurabile della scena – dopo essersi messo a sedere tra Agatone e Socrate. E ne racconta davvero di carine, con molta sincerità, come del resto si tende a fare quando si è sbronzi: non solo si mette a parlare delle grandi e superiori qualità di Socrate, ma anche di tutti i corteggiamenti che gli ha dedicato e delle magre figure che Socrate gli ha fatto fare, non cedendo alle sue lusinghe. Anzi, a quel punto, e proprio lì, di fronte a tutti, Socrate gli fa rimediare un’altra magra figura. Perché gli dice che tutto il suo discorso, il discorso di Alcibiade, ha soltanto lo scopo di allontanare Socrate da Agatone, perché in realtà ciò che Alcibiade vuole è che Socrate ami solo lui, mentre Agatone solo da Alcibiade deve essere amato. E con ciò si rivela però che il vero oggetto di amore di Alcibiade non è Socrate, ma Agatone.

Niente male come intreccio. E bel colpo da psicoanalista, osserva Lacan; è una vera e propria interpretazione. In una situazione che ricorda abbastanza da vicino quella della seduta analitica – dove l’amore di transfert non ha come oggetto l’oggetto del transfert, cioè l’analista, ma un Altro – parlando di Socrate, dichiarandogli il suo amore, Alcibiade parla in realtà di un altro, parla di Agatone. E questo, diciamo, è a grandissime linee l’esito, la conclusione del percorso di Lacan.

Ma, dicevo, non è principalmente per questo esito che ci interessa il discorso di Lacan. Non è in questione una applicazione della psicoanalisi alla filosofia, né viceversa. è in questione piuttosto la figura di Socrate in quanto emblematica del modo di sostenersi del discorso filosofico. E per vederlo cerchiamo adesso di raccogliere qualche elemento su cui Lacan ci fa cadere l’occhio nel corso del suo commento.

Per trasformare Socrate in analista, Lacan ha bisogno di introdurre nella sua figura dei tratti che non sono affatto privi di importanza e interesse, e non solo per i suoi scopi. Tutte cose che, del resto, si conoscono abbastanza. Due di questi tratti li abbiamo già indicati: la atopìa di Socrate, e il suo demone. Potremmo anche considerarli una "spersonalizzazione" (forse ha a che fare con quello strano desiderio di morte): ecco allora che già questi due tratti ci consentono di intendere la sua "figura" anche come qualcosa che scompare, o qualcosa da cui scompare, per esempio, una dimensione individuale, o soggettiva; e anche per questo potrebbe forse trasformarsi, e riapparire come una funzione di discorso. Del resto, la sua stessa posizione nel transfert con Alcibiade ce lo consente: lì Socrate è una funzione, un ruolo, un luogo cui Alcibiade si rivolge per dire – inconsapevolmente – una verità che sta altrove, che vale per un altro. E per quanto qui Socrate riveli un aspetto abbastanza inedito – di solito è molto più sornione e "ironico" con i suoi interlocutori, e certo con loro non fa la parte dell’analista o del terapeuta, ma semmai quella dell’educatore – possiamo da qui cominciare a seguire una pista che ci porti in un contesto più generale, e più ampio. Una pista che ci porti a dire qualcosa di più circa quel particolare rapporto con la verità che Socrate definisce come un sapere di non sapere e che, vuole la tradizione, inaugurerebbe la ricerca filosofica non naturalistica. E che forse possiamo ritrovare presente, ma secondo la modalità della rimozione (o magari soltanto un po’ defilata e sullo sfondo), nelle varie logiche e strategie del discorso filosofico; soprattutto nella sua pretesa – costante, infinita, sempre ripetuta – di giungere alla verità.

Cerchiamo allora di dire qualcosa di più su questa che propongo come una traduzione della "figura" di Socrate in figura di discorso. E lo facciamo, sempre aiutati da Lacan, andando a vedere come possiamo interpretare quello che è un passo, un episodio molto famoso, e decisivo, di Socrate: la sua fuga nei lògoi. Nel Fedone Socrate racconta la sua storia, una sorta di autobiografia intellettuale, di come passò dalla ricerca nelle cose della natura a un’altra ricerca, a un "nuovo modo per la ricerca della vera causa": "…stanco com’ero di tali indagini [sulla natura], credetti bene guardarmi da questo, che cioè non mi capitasse come a coloro che durante una eclissi contemplano e indagano il sole: alcuni infatti ci perdono gli occhi, se non si limitano a considerarne l’immagine riflessa nell’acqua o in qualche cos’altro di simile. E così pensai anch’io, e temetti mi si accecasse del tutto l’anima a voler guardare direttamente le cose con gli occhi e a cercare di coglierle con ciascuno dei sensi. E mi parve che dovessi rifugiarmi nei discorsi (lògoi), e considerare in essi la verità delle cose".(6) è un gesto decisivo, dicevo. Che non consiste tanto nel riportare la ricerca dalla natura all’uomo (come vuole per esempio la lettura di Cicerone), né tutte le cose all’uomo (come i sofisti, e Protagora in particolare), ma nel fatto che, come dice Lacan, "bisogna anzitutto garantire il sapere". Ciò che Socrate scopre, e che gli consente di fondare la scienza, l’epistème, "è che il discorso genera la dimensione della verità. […] Quando Socrate dice che è la verità, e non lui stesso, a confutare il proprio interlocutore […] rinvia insomma all’ambito del puro discorso tutta l’ambizione del discorso. […] Socrate riporta la verità al discorso".(7)

Questa è la sua atopìa, in fondo, il "da nessuna parte" di un individuo, di una coscienza si potrebbe anche dire, quando entra in gioco la verità. è, se vogliamo, anche un ulteriore elemento di quella che poco fa ho chiamato, magari con un termine un po’ brutto, una spersonalizzazione. La verità non avrebbe più direttamente a che fare con un oggetto (natura), e nemmeno con un soggetto (coscienza), ma la verità sta nel discorso. Forse anche in questo senso possiamo leggere quello che Lacan chiama il desiderio di morte in Socrate: non un desiderio tragico, tra due ordini di leggi; ma il desiderio, quasi la necessità, di un venir meno del soggetto perché la verità possa apparire per ciò che è: non una dimensione individuale ma una dimensione di discorso.

Un desiderio che è sostenuto da un demone, si diceva anche: e qui si può pensare a un altro tratto della figura di Socrate. Quel tratto che, secondo ciò che ci racconta nell’Apologia, ha a che fare con l’inizio della sua ricerca, con l’inizio della sua attività pubblica. Quando Socrate incomincia ad andare in giro a fare domande? Quando da un amico gli viene riportata una sentenza dell’oracolo di Delfi, secondo cui egli sarebbe il più sapiente di tutti.(8) E invece di rimanersene tranquillo e contento, Socrate si mette a girare e a fare domande; per realizzare attraverso il discorso la verità del dio, incominciando a demolire il sapere dei sapienti. Ma anche incominciando a demolire la stessa verità del dio. Come se, insomma, quel demone che lo abita, e che oltretutto gli viene da altrove, da un altro, anziché soddisfarlo, producesse un desiderio di verità, quel desiderio di verità che animerà tutti i suoi discorsi. Ma, va sottolineato, un desiderio di verità contro la verità stessa, addirittura – e paradossalmente – contro la verità del sapere di un dio che non può mentire.

Ma allora che cosa si esprime propriamente attraverso questa figura senza luogo, questo Socrate che è atopon, il cui desiderio, ciò che porta dentro di sé e che egli stesso chiama demone, proviene dall’altro, dal dio? Che cosa può significare se questa figura la traduciamo nel discorso filosofico? Che cosa accade a ciò che abitualmente chiamiamo il soggetto del discorso filosofico? Anzitutto che esso può qui rivelare una diversa configurazione, e precisamente una configurazione desiderante. Dove il desiderio ci riporta a un vuoto costitutivo, a una mancanza, a un non possesso. Non va dimenticato che il filosofo non è il sapiente, colui che possiede il sapere; ma è colui che desidera il sapere, colui che non ce l’ha. è una questione di vuoto, quel vuoto che allora la figura di Socrate per così dire incarna e che impedisce o, si potrebbe dire oggi, decostruisce ogni sapere positivo.

A questo punto sarebbe abbastanza confortevole sbrigarcela così alla svelta e precipitarci a dire che ciò che muove Socrate, ciò che muove il discorso filosofico, è un desiderio; ovvero qualcosa che è dell’ordine della mancanza. Ci manca qualcosa, dunque la desideriamo, e tutto sembra funzionare. Ma questo in fondo andrebbe proprio in direzione opposta rispetto alla atopìa di Socrate, perché ci troveremmo di fronte a una specie di dialettica tra vuoto e pieno e la posizione di Socrate, in quel vuoto, non sarebbe per nulla atopica, anzi, sarebbe ben collocata. E invece è proprio da qui che le cose incominciano a complicarsi, perché il vuoto del discorso filosofico, il vuoto di Socrate che vuole sapere, il vuoto del desiderio non è assolutamente una nozione così maneggevole come sembra. Del resto abbiamo già visto che questo vuoto non è del tutto vuoto: questo vuoto, l’abbiamo visto, sono le parole del dio, quelle che forse possono sembrare addirittura le parole più piene. Eppure queste parole non bloccano il desiderio; semmai, anzi, nel caso di Socrate, lo schiudono, lo suscitano.

Proprio da qui possiamo ritornare, dopo questo giro, al Simposio, a ciò che forse è soprattutto la questione di questo dialogo: l’amore, il desiderio, certo, ma anche la loro presenza nel discorso filosofico, più che il loro essere oggetto del discorso filosofico. E per arrivare al loro carattere costitutivo e insieme inafferrabile per il discorso filosofico stesso, alla loro incollocabilità, alla loro atopìa. Alla impossibilità, quasi, di parlarne.

Partiamo allora da un punto che di solito non ci viene subito in mente quando pensiamo a Socrate. Quando pensiamo a Socrate ci viene in mente che lui è uno che sa di non sapere. E tuttavia non è proprio così; non è che Socrate non sappia proprio niente. Anzi, come in più parti dice, egli non sa niente di niente, fuorché le cose dell’amore. Per esempio: "… non dirmi più se ami o no perché vedo che non soltanto sei innamorato, ma sei già anche avanti nell’amore. Ché, se in tutto il resto sono mediocre ed inutile, in questo ho come un dono divino di poter riconoscere a prima vista chi ama e chi è amato";(9) ed è, questa, una dichiarazione che Socrate riprende in maniera ancora più chiara proprio nel Simposio, dove afferma di essere stato istruito da Diotima nelle cose d’amore: "fu proprio lei che mi istruì nelle cose d’amore…"; e, prima ancora, quando Eurissimaco propone di parlare di amore: "Nessuno, o Eurissimaco, disse Socrate, ti voterà contro, perché non potrei oppormi certamente io che vo sempre dicendo di non saper altro che cose d’amore…".(10)

Eppure, quando si tratta di parlare di amore, di quell’unica cosa che conosce, Socrate non si comporta fino in fondo da Socrate. Incomincia a farlo, lo abbiamo visto prima, riprende le cose appena dette da Agatone e procede a confutarle, però si ferma. Dove si ferma? Proprio nel momento in cui il rigore del suo discorso scientifico, il rigore della epistème, non lo farebbe procedere oltre. Nel momento in cui, volendo affrontare l’amore nella sua verità, volendo dire la verità sull’amore, è costretto a trasformarlo in desiderio, forse così smascherandone la natura, ma sbarrandosi anche la strada per parlare del desiderio in termini scientifici, in termini "filosofici". Amore è amore di qualcosa; amore è amore di bellezza; ma si ama ciò di cui si è privi; amore quindi è privo di bellezza; ma allora amore non è bello; e, se ciò che è bello è buono, amore è anche privo di bontà ecc.(11)

Insomma, quando Socrate comincia a cercare di dire la verità sull’amore, quando cerca di dire la verità del desiderio, si accorge che non può andare oltre. E proprio di fronte a quell’unica cosa che conosce. Ecco dunque che Socrate esita, si ferma, esce quasi di scena. Come a significare, senza poterlo dire, che non c’è verità di quel luogo della verità che lui incarna; che lui incarna non solo con la sua mancanza, con il suo vuoto, ma anche, e questo può suonare del tutto paradossale, con l’unica cosa che sa. L’unica cosa che sa, che lo sostiene, come direbbe Lacan, sono le cose dell’amore, ma proprio queste non possono essere oggetto di scienza, non possono essere l’oggetto del suo discorso. Sono le cose che lo sostengono, senz’altro, nel suo desiderio e nel suo discorso, ma proprio come tali gli sfuggono, sfuggono alla fuga nei lògoi che lui è, sostengono il discorso sfuggendogli.

Ma allora come si può affrontare il discorso sull’amore? Non sembra che ci siano alternative: proprio introducendo uno scarto rispetto all’epistème. Attraverso una esitazione; forse, più ancora, attraverso una rinuncia. La rinuncia alla onnipotenza della logica del discorso, la rinuncia alla pretesa scientifica, la rinuncia alla epistème. La rinuncia a quella macchina scientifica che proprio Socrate aveva inventato e di cui ci dà un ulteriore assaggio quando si rivolge ad Agatone; una macchina che improvvisamente deve essere bloccata. Ed è proprio qui che Diotima entra in scena; è Diotima che, per bocca di Socrate, riprende proprio il discorso che lui aveva interrotto per dirgli, grosso modo, che l’alternativa bello/brutto, sapiente/ignorante, insomma quella macchina non va più bene, non regge se si parla di amore. C’è anche una via di mezzo tra la sapienza e l’ignoranza. Qual è? chiede Socrate: ""Giudicare con giustezza, anche senza essere in grado di darne ragione. Non sai che ciò appunto non è scienza – perché dove non si sa dar ragione come potrebbe esservi scienza? Né ignoranza – giacché ciò che coglie il vero come potrebbe essere ignoranza? Orbene qualcosa di simile è la giusta opinione, qualcosa di mezzo fra l’intendere e l’ignoranza"".(12)

E dopo che Socrate continua a chiedere cos’è amore, ecco la risposta di Diotima: ""Un demone grande, o Socrate. E difatti ogni essere demonico sta in mezzo fra il dio e il mortale. […] Anche fra sapienza e ignoranza [Amore] si trova a mezza strada, e per questa ragione nessuno degli dèi è filosofo, o desidera diventare sapiente (ché lo è già), né chi è già sapiente s’applica alla filosofia. D’altra parte, neppure gli ignoranti si danno a filosofare né aspirano a diventare saggi, ché proprio per questo l’ignoranza è terribile, che chi non è né nobile né saggio crede d’aver tutto a sufficienza; e naturalmente chi non avverte d’essere in difetto non aspira a ciò di cui non crede d’aver bisogno." "Chi sono allora, o Diotima, replicai, quelli che s’applicano alla filosofia, se escludi i sapienti e gli ignoranti?". "Ma lo vedrebbe anche un bambino, rispose, che sono quelli a mezza strada fra i due, e che anche Amore è uno di questi. Poiché appunto la sapienza lo è delle cose più belle ed Amore è amore del bello, ne consegue necessariamente che Amore è filosofo, e in quanto tale sta in mezzo fra il sapiente e l’ignorante.""(13)

Una via di mezzo, come abbiamo sentito. Che però, ancora una volta, non possiamo prendere troppo tranquillamente, facendo la media tra un po’ di sapere e un po’ di non sapere. Soprattutto se ci accorgiamo che quando Diotima dice che "Amore è filosofo" non sta solo parlando di un personaggio atopico, di un demone, come lo chiama, ma sta parlando anche, e forse soprattutto, di quella modalità del discorso che quando è discorso filosofico che ha per oggetto amore non può pretendere di darne ragione: non può pretendere di dare ragione di ciò che lo sostiene. Lo abbiamo sentito poco fa: qual è questa via di mezzo tra la sapienza e l’ignoranza, chiede Socrate. E Diotima: "Giudicare con giustezza, anche senza essere in grado di darne ragione". Che potremmo a questo punto tradurre come una figura un po’ bizzarra, paradossale, della verità: una verità che non può dare conto, che non può dare ragione di se stessa. Una verità che, se vogliamo seguire Lacan, è piuttosto dell’ordine dell’inconscio, secondo la scoperta freudiana. Ma se anche non lo volessimo seguire su quella che è una possibile traduzione psicoanalitica del discorso filosofico, non dovremmo tuttavia restare sordi a quel carattere di paradossalità che il discorso filosofico assume quando scopre non solo che è abitato da amore, non solo che amore, già con Socrate e proprio in riferimento al discorso filosofico stesso, è dell’ordine del desiderio, ma soprattutto che di questo desiderio, che sostiene Socrate, che sostiene il discorso filosofico stesso, non si può venire a capo. Si può dire la verità, ma non si può dire la verità sulla verità; non si può darne ragione. Non si può dare ragione, insomma, proprio dell’unica cosa che si sa.

Da qui un’ultimissima considerazione. Che cioè del desiderio che abita il discorso filosofico non sappiamo nulla, se non che è, appunto, desiderio. Qui la parola "desiderio" potrebbe sembrare, e forse è, una parola allo stesso tempo piena e vuota; forse potremmo chiamarla una parola atopica. Proprio per questo, se la filosofia potesse familiarizzare con questa parola, forse potrebbe anche imparare ad abitarla. Forse, se imparasse ad abitarla – e in questo non nascondo la incombenza di un compito etico – avrebbe la possibilità non dico di sospendere o arrestare, ma di declinare in maniera diversa la propria macchina scientifica, la propria deriva scientifica; di introdurre nel discorso filosofico ciò che comunque già c’è, il suo desiderio.

Non saprei cosa altro dire su questa faccenda del desiderio. Voglio ricordare però che in una seduta del seminario sull’etica, e parlando del desiderio dell’analista, Lacan grosso modo dice che nell’analisi c’è il desiderio dell’analizzato, ma c’è anche il desiderio dell’analista. Solo, la differenza è che il secondo, il desiderio dell’analista, deve essere "un desiderio avveduto".(14) Introdurre il desiderio in filosofia, come Socrate forse sembra avere fatto senza su questo punto essere seguito, e come Lacan indica all’analista che si deve fare, significa forse introdurlo come un desiderio avveduto, come un desiderio che non ceda al desiderio di non vedersi.

 


Note.

(*) Conferenza pronunciata nell’ambito di un ciclo dedicato a Socrate tenutosi al Teatro Franco Parenti di Milano dall’11 al 21 dicembre 1995 e intitolato "Socrate. Incontri, serate, lezioni". Voglio ringraziare Pierpaolo Marrone per l’attenta lettura del testo e i numerosi suggerimenti. back

(1) Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre VIII. Le Transfert, 1960-1961, texte établi par Jacques-Alain Miller, Seuil, Paris 1991. back

(2) Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, 1959-1960 (1986), testo stabilito da Jacques-Alain Miller, edizione italiana a cura di Giacomo B. Contri, Einaudi, Torino 1994; cfr. in particolare pp. 307-361. back

(3) Jacques Lacan, Le Transfert, cit., p. 102; il passo del Gorgia cui Lacan si riferisce è probabilmente 502b. back

(4) Ibid. back

(5) Ibid. back

(6) Fedone, 99d-e. back

(7) Jacques Lacan, Le Transfert, cit., p. 100; qui Lacan si riferisce a un passo del Simposio, 201c: "La verità, amato Agatone, non puoi contraddire, perché contraddire Socrate non è difficile". back

(8) Cfr. Apologia, 21a. back

(9) Liside, 204b-c. back

(10) Simposio, 201d; 177d. back

(11) Cfr. Simposio, 200e-201c. back

(12) Simposio, 202a. back

(13) Simposio, 202d-e; 203e-204b. back

(14) Jacques Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 377; l’intero passo dice: "Ciò che l’analista ha da dare, contrariamente al partner dell’amore, è ciò che la più bella sposa del mondo non può oltrepassare, ossia ciò che egli ha. E ciò che egli ha, non è nient’altro che il suo desiderio, come l’analizzato, a parte il fatto che è un desiderio avveduto." back