The concept of liberty in the Republican tradition

Abstract

The author investigates the origin and development of the concept of liberty and its special meaning in the Republican tradition of political thought. The origin of the Western concept of liberty lies in ancient Greece, in the opposition between liberty and slavery conceived after the liberation of Athens from tyranny and the victory over the Persian empire. The author then investigates the Republican notion of liberty that originates in ancient Rome and reaches its peak with Cicero. This conception of liberty emphasizes self-government and partecipation in common deliberation and runs through Western political thought up to Rousseau, Tocqueville and the authors of the Federalist Papers.

 

Il concetto di libertà nella tradizione repubblicana:

una rassegna concettuale

 Giovanni Giorgini
Universitΰ di Bologna, Dip. Politica, Istituzioni, Storia

 

"Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta": con queste parole Virgilio, nel I canto del Purgatorio di Dante, cerca di toccare la corda più sensibile del cuore di Catone l'Uticense, così da rendergli gradita la visita di un uomo in carne e ossa proveniente dall'abisso infernale. Sensibile era certamente Catone a quel valore che reputò più alto della vita stessa, allorché ritenne di non dover sopravvivere alla fine delle libertà repubblicane e pose termine ai suoi giorni. L'icastica formulazione dantesca ci consente di cogliere il punto teoreticamente più importante nella definizione del concetto di libertà repubblicana: si tratta di una libertà di partecipare alle decisioni della comunità politica, di essere partecipi al processo di discussione e deliberazione nel quale vengono prese decisioni che riguardano tutto l'insieme dei cittadini; non si tratta mai soltanto di una libertà dalla politica, intesa come fuga dalla dimensione pubblica e rifugio nel privato, esenti da occupazioni e preoccupazioni. Allorché a Catone fu negata la libertà come partecipazione all'autogoverno di una comunità politica autonoma, egli ripiegò sull'unica libertà rimasta al saggio stoico: l'uscita volontaria da questa vita. Questa devozione alla libertà politica consente a un pagano, per di più morto suicida, di avere accesso alla vita eterna: solamente il ricorso alla poesia permette di cogliere la straordinaria importanza che il termine "libertà" ha avuto nella storia e nel pensiero politico dell'Occidente, e naturalmente nel pensiero repubblicano.

"Libertà" è, infatti, un vocabolo antico quanto "politica". Occorre notare, però, che i due termini non sono coestensivi, perché se è possibile una libertà dalla politica, non può esservi politica senza libertà. Non a caso l'aggettivo "libero" è assai più antico del sostantivo "libertà": il primo, infatti, è attestato già in Omero per individuare una condizione contrapposta a quella servile (Ettore preconizza ad Andromaca che gli Achei la priveranno del "libero giorno": Iliade VI,455; cfr. XX,193) e rimanda dunque a una condizione sociale e giuridica; il secondo è invece un termine interamente politico. Originariamente "libertà" è, infatti, un "termine di battaglia", che si sostanzia di contenuto allorché i Greci "inventano" la politica (ossia creano uno spazio comune, nel quale si attua la mediazione attraverso il dialogo e senza ricorso alla violenza e dove vengono prese le decisioni concernenti la comunità politica), dopo aver combattuto il nemico interno – il tiranno – e quello esterno – l'impero persiano –. Da questa duplice vittoria, conseguente al consapevole rifiuto di sottomettersi a un'autorità superiore, emerge il valore politico della libertà: liberati dai tiranni, i Greci sono diventati più potenti, così da poter trionfare su di un esercito assai superiore ma composto di schiavi (cfr. Erodoto V, 66; 78; 91). La vittoria degli Elleni sul Medo è la vittoria della libertà sulla schiavitù; la libertà, intesa come uguaglianza di potere politico, è un fattore di potenza: è questa l'interpretazione di Erodoto, che veicola una brillante operazione culturale della propaganda ateniese, che trasformò in lotta per la libertà un normale, mancato evento di sopraffazione. In quest'ottica la libertà è l'opposto della servitù (questa opposizione è peraltro comune a tutti i popoli indo-europei, ma si sostanzia di contenuto in ogni singola entità politica), ma in un contesto politico, non personale, sociale; la servitù che si vuole fuggire è una servitù nella dimensione pubblica, così come la libertà che si vuole conquistare, o difendere, è la libertà della comunità politica, non del singolo. Osservata dall'interno, la libertà (eleutheria) esiste dove vi sono cittadini uguali che detengono il potere, che discutono delle cose pubbliche, comuni, su di un piano di parità; vista dall'esterno, una comunità politica è libera allorché ha leggi proprie (autonomia) e sceglie da sé i propri amici e nemici, stringendo alleanze o muovendo guerra: questa è l'"ideologia della città" elaborata ad Atene nel V secolo e riflessa nelle opere di storici, filosofi, tragediografi, oltre che vissuta nell'esperienza quotidiana dei cittadini, naturalmente. Il tiranno e il Gran Re, d'altro canto, sono gli unici liberi nelle loro entità politiche, perché governano come il padrone della casa (despotes) su di una massa di schiavi. La libertà diviene così il valore che riassume l'essere politico degli Ateniesi, se non proprio di tutti gli Elleni, una bandiera in nome della quale si può morire e si può chiedere ad altri uomini di sacrificare la propria vita. In tal senso viene celebrata nella tragedia, questa meravigliosa creazione poetica della grecità politica del V secolo; così come nelle opere dei filosofi Platone e Aristotele la condanna della schiavitù della tirannide e la contrapposizione con la condizione servile dei Persiani costituiscono il presupposto per l'edificazione della città perfetta. La libertà può quindi diventare uno slogan: nella guerra del Peloponneso Atene sostiene di difendere la libertà dei Greci contro i Persiani con il suo impero marittimo; Sparta, d'altro canto, dopo aver bollato come tirannide tale impero, fa di "liberare i Greci" il proprio motto per sfruttare il malcontento e acquisire alleanze contro la potenza rivale (cfr. Tucidide I,139; II,8; IV,108 e passim). Anzi, la provocatoria e propagandistica richiesta di liberare i Greci – "la pace ci sarebbe se voi lasciaste liberi i Greci", Tucidide I, 139 – è contenuta nell'ultimatum che gli Spartani danno agli Ateniesi alla vigilia della guerra e costituisce la precondizione per una pace duratura tra le due città. La libertà della città, in sintesi, presenta due aspetti: da un lato si esemplifica nella capacita di autodeterminarsi dandosi leggi proprie e conducendo una propria politica estera – autonomia; osservata dall'interno, essa si identifica con l'isonomia, l'uguale possibilita di partecipazione al processo decisionale tramite l'intervento ai lavori dell'Assemblea, il sedere come giudice nei tribunali e la possibilita di essere sorteggiato per ricoprire una carica.

La liberta è, quindi, una dynamis, una potenza e una possibilità, ed è tutta inserita nella dimensione politica. Quanto detto è esemplificato in due celebri discorsi che Tucidide fa pronunciare a Pericle, nei quali si afferma che gli Ateniesi, unici, considerano "non ozioso ma inutile" chi, non partecipando attivamente agli affari pubblici, è libero dalla politica (apragmon) (II,40), e si sostine la tesi secondo cui la potenza che deriva alla città dall'impero costituisce la difesa della libertà dei cittadini (II,63): essere liberi, in politica estera, significa poter fare ciò che si vuole, e quindi dominare i più deboli, mentre in politica interna significa partecipare alla "cosa pubblica", ossia agli affari della città. La libertà viene così a coincidere con una forma di governo, la democrazia, nella quale vige una legge fissa e più ampio è l'accesso all'Assemblea e alle cariche politiche, dove è da notare l'appropriazione da parte del demos dell'ideologia aristocratica, secondo la quale è l'eguaglianza nel detenere il potere politico che caratterizza, che sostanzia di significato, la libertà.

È noto che la libertà non ha un ruolo fondamentale nella visione politica di Platone, per il quale tale valore è troppo compromesso con gli eccessi della democrazia di fine V secolo: l'eccessiva libertà , divenuta licenza, si tramuta nel suo opposto, la tirannide (Repubblica 562d). La comunità politica ha invece come fine creare uomini virtuosi che, nelle loro diversità, vivano in armonia la propria vicenda terrena, in una società ordinata e dunque giusta, certi di ottenere un premio alla propria virtù nell'aldilà. Non bisogna tuttavia pensare che Platone fosse completamente sordo alle esigenze di libertà; al contrario, egli attribuisce, per esempio, la decadenza dell'impero persiano al fatto che i re "tolsero troppo la libertà al popolo e instaurarono un dispotismo troppo duro e così distrussero lo spirito di amicizia e di unità nella comunità politica" (Leggi 697c-d): la libertà deve bilanciare il potere in un equilibrio armonico, una conclusione che sarà ripresa da Cicerone. Aristotele riflette notoriamente il pregiudizio conseguente alle guerre persiane per cui la libertà contraddistingue il popolo ellenico e i popoli orientali sarebbero schiavi per natura, adatti dunque a vivere sotto un regime dispotico. Nella sua visione lo schiavo è "un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo un uomo" (Politica I 4, 1254a15), adatto quindi solo alla fatica fisica. Non gli sfugge però che molti sono divenuti schiavi in seguito a guerre e sono quindi tali solamente "per legge"; la loro condizione, tuttavia, non differisce molto da quella degli schiavi per natura perché, non potendo condurre la vita del cittadino libero, è loro preclusa una vita propriamente umana. Aristotele ci ricorda così come l'essere liberi sia anche una condizione giuridica, propria di chi gode pienamente dei diritti civili, presupposto per condurre una vita politica, l'unica adatta all'uomo. Nella sua visione la libertà costituisce il primo requisito della comunità politica, l'unica forma di società nella quale l'uomo può realizzare le sue potenzialità tipicamente umane. Egli afferma innanzitutto che l'essere "liberi e uguali" è il presupposto per costituire una comunità politica (Etica Nicomachea V 10, 1134a27; cfr. Pol. III 8, 1280a5; 24; 1281a6; IV 9, 1294a20; IV 12, 1296b18). Nella sua classificazione delle forme di governo, la libertà rappresenta poi il principio costitutivo e il fine della democrazia (E.N. V 6, 1131a28; Pol. Iv 4, 1291b34; IV 8, 1294a11; V 9, 1310a30; VI 2, 1317a40ss; 1318a10), così come la virtù lo è dell'aristocrazia e la ricchezza dell'oligarchia. Polibio, che vive nella Roma repubblicana del II secolo a.C., vede nella libertà il presupposto di ogni potenza politica e colloca l'inizio dell'ascesa dei Romani nel momento in cui riconquistarono insperatamente la propria libertà e indipendenza dopo l'invasione dei Galli (I,6). La sua opera storica, che egli definisce "storia pragmatica" (I,2; cfr. I,35 e IX,1-2) in quanto narrazione di eventi dotata di uno scopo pratico, atta ad ammaestrare gli uomini accorti e in particolare gli uomini politici, si pone deliberatamente come fine spiegare lo sviluppo della potenza romana, giunta a dominare quasi tutto l'universo abitato. Egli ritiene che la bontà della costituzione romana, una forma di governo mista in quanto "miscela" le caratteristiche positive della monarchia nella figura dei due consoli, dell'aristocrazia nel Senato, e della democrazia nell'autorità del popolo (VI,11), sia la ragione ultima della potenza dello Stato romano: questi tre poteri si controbilanciano, a volte danneggiandosi a volte collaborando fra loro, e garantiscono così la libertà dei cittadini e la potenza dello Stato. Questa analisi delle ragioni della grandezza di Roma sarà poi ripresa da Machiavelli, il quale vedrà nel contrasto tra aristocrazia e plebe il fondamento della libertà e della potenza romana. Riprendendo la classica suddivisione platonico-aristotelica delle forme di governo, a cui aggiunge l'idea di una rotazione secondo la quale esse si trasformano, decadono e ritornano al tipo originario, Polibio individua sei regimi politici "semplici" e considera la libertà il principio costitutivo che individua la democrazia. Egli ritiene che la democrazia sia un buon regime che si instaura quando il popolo, stanco delle prepotenze e dell'avidità di pochi governanti, rovescia l'oligarchia e assume su di sé la cura degli affari pubblici. Questa forma di governo stima più di ogni altra cosa "l'uguaglianza di diritti e la libertà di parola" (VI,9): Polibio riprende qui un tema tipicamente ateniese, risalente a Erodoto, per cui l'uguaglianza di parola (isegoria, parrhesia) è sinonimo di uguaglianza di diritti (isonomia) e di potere (isokratia) e dunque di libertà. È appena il caso di ricordare l'enorme influsso che le Vite parallele di Plutarco hanno esercitato sui grandi personaggi di tutte le epoche. Mosso da un intento più educativo che storico-biografico, egli ha saputo infondere vita ai propri personaggi miscelando con perizia elemento storico ed elemento etico e ha saputo dotarli di un "armamentario" di virtù e valori politici che hanno conferito loro una grandezza ineguagliabile, rendendoli paradigmatici, in ogni epoca, degli ideali repubblicani. Vissuto nel I secolo d.C., Plutarco identifica la libertà con il regime politico della democrazia, nella quale tutti godono di eguali diritti. Nella sua visione, il primo creatore della democrazia fu Teseo, il quale abolì la monarchia e creò la città di Atene (Teseo 24-25). Più in generale, egli ritiene che, dopo le guerre combattute contro il Medo in difesa di quei valori, libertà e uguaglianza siano i perni della cultura ellenica (Temistocle 27).

Questa insistenza sulla riflessione politica greca è stata necessaria perché i Greci, ma sarebbe meglio dire gli Ateniesi, ci hanno trasmesso un modello, idealizzato e ideologico ad un tempo, che ha esercitato un influsso potentissimo, meglio ha plasmato la visione della libertà nell'Occidente. Anche nella cultura romana il significato del termine libertas si definì, per contrarium, a partire dalle lotte contro la monarchia e il dominio del singolo rimase sempre l'antitesi negativa nella concettualizzazione della libertà: non dimentichiamo che l'uccisione di Cesare fu perpetrata in difesa della libertà, così come quella precedente di Tiberio Gracco. Caratteristica della libertà romana è quella di risentire dell'influsso di concezioni filosofiche greche, ma di essere concettualizzata senza essere disgiunta dalle situazioni storiche da cui aveva avuto origine. In questa unione di teoria e prassi si possono distinguere diverse sfere di libertà: la libertà è innanzitutto l'insieme dei diritti e dei privilegi, civili e politici, del cittadino romano; vi è quindi una libertà giuridica, che contraddistingue il liber dal servus, il quale è equiparato a una cosa; sempre connessa alla sfera del diritto è la nozione di libertà come protezione dei diritti dell'individuo contro la coercizione dei magistrati; vi è infine la visione "popolare" della libertà come difesa dai soprusi della nobiltà, che ha come contraltare la visione "ottimate" che vede il principale problema della repubblica nel grado di libertà che occorre concedere al popolo. Si noterà che in tutti questi casi la libertà trova attuazione mediante le istituzioni giuridiche e politiche, e dunque mediante la legge, sua vera garante: la libertà si identifica con la respublica, le sue leggi e le sue istituzioni, e ciò che da esse discende: i costumi e gli uomini che da essi sono plasmati. Questo emerge con tutta chiarezza, più che da tante professioni pubbliche, da una lettera privata di Cicerone (Ad Quintum fratrem III,5,4), dove si afferma che "non vi è più repubblica, non vi sono più tribunali", dove è evidente, nella formulazione concisa, l'identificazione dei due termini; ad essa è avvicinabile l'affermazione del poeta Ennio, "Moribus antiquis res stat Romana virisque" ("è sui costumi e sugli uomini antichi che poggia la grandezza di Roma": citato da Cicerone, De Republica V,1). Cicerone rappresenta, senza esagerazioni, la più insigne voce latina esaltatrice della libertà: la sua straordinaria capacità oratoria gli fornì gli strumenti per ammantare di uno splendido drappeggio di parole quell'ideale che animò tutta la sua azione politica e lo condusse alla morte, per aver difeso la libertà repubblicana contro Antonio: Leopardi definì le orazioni Filippiche, che procurarono a Cicerone l'odio di Antonio e la conseguente morte, "l'ultimo monumento della libertà antica". Nella poliedrica attività di Cicerone la libertà ha un ruolo centrale: l'amore per la libertà, e il congiunto odio per la tirannide, è l'ideale politico che lo anima, anche se egli concepisce la libertà secondo gli schemi ormai vetusti del partito ottimate; l'amore per la libertà lo porta però a trascendere i limiti storici e politici della sua persona e gli fanno celebrare la libertà universale come forza motrice della vita e della storia. Nella sua visione esistono diverse sfere di libertà, corrispondenti agli ambiti in cui si estrinseca la vita dell'uomo. Nell'ambito etico, egli elogia la libertà dalle passioni, "per la quale gli uomini magnanimi devono lottare in ogni modo" (De officiis I,20); questa libertà, che consente all'uomo di elevarsi al di sopra delle bassezze e degli appetiti che lo accomunano alle bestie, deve essere coltivata dall'uomo politico, perché solo essa può procurargli la gloria. Nella sua visione la pratica ha il primato sulla teoria e la virtù risiede nell'azione: si passa così all'ambito politico, dove la libertà, che risiede nel popolo, è uno degli elementi costitutivi della respublica, unitamente alla potestas nei consoli e all'auctoritas nel Senato. Così egli definisce il tribunato della plebe "guardiano e difensore della libertà" (De lege agraria II,15) e difende come "garante della libertà" (De oratore II,199) l'istituto della provocatio, che consente al cittadino di appellarsi al popolo. Nella sua opera politica più importante, il De Republica appunto, Cicerone muove dalle teorie politiche greche, in particolare di Platone e Aristotele, alle quali affianca però l'esperienza politica romana, che giudica superiore, perché tratta dalla effettiva realtà politica. In quest'opera fornisce la famosa definizione di respublica come res populi, ma aggiunge che "non si può definire però popolo ogni moltitudine di uomini riunitasi in un modo qualsiasi, bensì una società organizzata che ha per fondamento l'osservanza del diritto e la comunanza di interessi" (I,25). Riprendendo l'argomentazione polibiana, egli ritiene che nè regno, nè aristocrazia nè democrazia possano essere ottimi regimi politici, in quanto proni a degenerare bruscamente e a tramutarsi nei corrispettivi regimi corrotti rappresentati dalla tirannide, dall'oligarchia e dalla demagogia (I,28). Solo una forma di governo mista, come quella romana, che risulti "dalla fusione e da un saggio temperamento" (I,29; cfr. I,35 e I,45; II, 39) delle tre forme buone, può assicurare stabilità e buon governo. E – Cicerone aggiunge – "solo in quello Stato in cui il popolo ha il sommo potere sussiste la vera libertà, di cui non v'è bene più prezioso, e che neppure può chiamarsi libertà, se non comporta una assoluta uguaglianza di diritti" (I,31; cfr. De officiis I,25, dove si dice che nei popoli liberi regna l'eguaglianza del diritto): la vera libertà deve dunque essere aequa e consiste nella populi potestas summa. Da questa condizione di uguaglianza tra tutti i cittadini discende l'autogoverno della repubblica: "un popolo libero sceglierà da sé gli uomini cui affidarsi" (I,34). La realtà della costituzione romana viene dunque messa a confronto con le costruzioni ideali dei filosofi greci e reputata superiore. A tal fine, nel II libro del De Republica Cicerone traccia un affresco storico sull'evoluzione della costituzione romana per mostrare come essa sia giunta alla perfezione grazie a una tendenza naturale della respublica non ostacolata dall'avversa fortuna. La monarchia dei primi re, di per sé non una cattiva forma di governo, fu sostituita dalla repubblica per l'odio attiratosi da Tarquinio; qui Cicerone commenta che la monarchia è incline a degenerare in tirannide e la libertà non consiste nell'avere un buon padrone, ma nel non averne affatto (II,23).

L'influsso delle storie di Sallustio, e segnatamente della sua esposizione delle cause della grandezza e del declino della repubblica romana, sul pensiero repubblicano è tanto evidente quanto poco riconosciuto. Nella sua opera De Catilinae coniuratione Sallustio, nato da famiglia plebea e appartenente alla fazione dei populares, dipinge Catilina come il tipico rappresentante della nobiltà degenere che complotta per rovesciare il mos maiorum e la repubblica. Sebbene avversi gli aristocratici, egli non condivide gli infiammati discorsi che i suoi personaggi pronunciano contro i nobili, in quanto mirano a sovvertire quell'ordine repubblicano tradizionale che egli reputa il valore più alto. In essi la libertà appare uno dei valori sacri e costitutivi della repubblica, ma si identifica con la libertà della plebe dall'oppressione dei tiranni e, in particolare, degli ottimati: "pro patria, pro libertate, pro vita certamus", afferma Catilina (58,7), sintetizzando con retorica efficacia i tre valori supremi cui si ispira la sua congiura. Allo stesso modo Manlio dice di non cercare il potere o le ricchezze ma "libertatem, quam nemo bonus nisi cum anima simul amittit" (33,1; Manlio ripete la stessa frase al re Marcio a 6,7); così M. Porcio Catone nel supremo pericolo afferma che "sono in gioco la libertà e la nostra stessa anima" (51,43). Nelle Historiae sallustiane, infine, troviamo spesso il nesso respublica e libertas populi Romani così come la contrapposizione comune tra la libertà garantita dalla repubblica e la servitus sotto un re o un tiranno. Sallustio riprende anche l'interpretazione classica della libertà come fattore di potenza politica: "fu soltanto allorché la città di Roma riuscì a liberarsi dai re che riuscì, in pochissimo tempo, a raggiungere una tale grandezza" (7,3). Tito Livio narra la storia di Roma dalla fondazione della città – da cui il titolo Ab urbe condita – fino alla sua epoca, con un sentimento di devozione per la missione che la virtus romana era chiamata a compiere e con un sentimento politico repubblicano. All'inizio della sua opera egli afferma esplicitamente che il suo proposito è mostrare quale tipo di vita, quali costumi e quali uomini abbiano permesso la nascita e la crescita dell'impero (Praef. 9); non disgiunto dalla narrazione storica è, dunque, un costante amor di patria che anzi informa l'intera opera, dotandola di un fine morale. Nella sua narrazione delle origini di Roma ricorre spesso l'usuale opposizione tra libertà e regno, soprattutto riferita a Tarquinio (II,2): il regno, tollerabile fin quando non si è conosciuta la dolcezza della libertà ("libertatis dulcedine nondum experta": I,17; cfr. II,9), è incline a degenerare in tirannide; e la natura del tiranno è tale che "o serve umilmente o domina superbamente", mentre la libertà consiste in una via di mezzo (XXIV,25). In questo contesto Livio elogia anche il tirannicidio, che consente al popolo di riacquistare la libertà. In una fase successiva egli mostra come sia la libertà della plebe che deve essere difesa di fronte ai nobili. Egli apre quindi la sua storia di Roma repubblicana con la celebre asserzione "Narrerò ora la storia politica e militare di un popolo romano libero, sottoposto a magistrati eletti annualmente e a leggi la cui autorità è superiore a quella degli uomini" (II,1,1). Tacito, lo storico di Roma imperiale, ha nostalgia della libertà repubblicana, dei suoi uomini e dei suoi costumi, che non può fare a meno di confrontare con le bassezze e i vizi dell'impero. Lo spirito di libertà è per lui il sentimento umano più fiero e più alto ad un tempo, che unisce gli uomini al di là dei confini geografici. Così, nell'elogio di Agricola traspare la sua ammirazione per i barbari suoi avversari, i quali combattono fieramente per la libertà della propria terra, e in particolare per il capo dei Britanni Calgaco, che definisce i suoi uomini "gli ultimi della terra e della libertà" (XXX,4). La medesima ammirazione è evidente nella sua descrizione dell'amore per la libertà dei Germani, che nella Germania viene contrapposto ai vizi dei declinanti Romani. Tipico ricorre in lui lo schema di contrapposizione tra la libertà repubblicana, della vetus aetas, e la schiavitù della sua epoca (Agricola II,3; Historiae I,1 e passim; Annales, passim). Egli inserisce la biografia di Agricola nel contesto dell'epoca di Domiziano, nella quale, egli afferma, "come l'età antica vide il culmine della libertà, così noi vedemmo quello della schiavitù" (II,3). Pronunciando un elogio di Nerva egli dice che questi riuscì a far coesistere "due cose un tempo inconciliabili, il principato e la libertà" (Agricola III,1). Asserzioni analoghe ricorrono nelle Historiae, dove si dice che Mario e Silla "trasformarono in dominio la libertà vinta dalle armi" (II,38). L'usuale concezione romana per cui la libertà repubblicana ebbe inizio con la cacciata dei re compare nelle battute iniziali degli Annales: "La città di Roma era all'origine governata da re; L. Bruto introdusse la libertà e il consolato" (I,1; cfr. III,27 dove si ripete che la libertà è legata all'espulsione di Tarquinio). Più in generale, si può notare come, attraverso la descrizione drammatica del suicidio di personaggi quali Seneca e Lucano in seguito al fallimento della congiura dei Pisoni, Tacito voglia evidenziare come, una volta spenta la libertà politica, all'individuo magnanimo rimanga solamente quella libertà privata rappresentata dall'uscita volontaria dalla vita.

Nel pensiero politico tardo-medievale risplende l'individuazione, ricca di suggestioni ciceroniane, operata da Giovanni da Viterbo nel suo Liber de regimine civitatum, composto attorno al 1240, della civitas stessa nelle nozioni di libertà dei cittadini o immunità degli abitanti.

Nel Defensor pacis – un'opera di grande impatto ideologico, che vede la luce nel 1324 – Marsilio da Padova esprimeva un punto di vista sganciato dal canone ufficiale della politologia medievale, ancora compresa nella distinzione agostiniana tra una civitas terrena e una civitas coelestis: la realtà che Marsilio aveva di fronte, peraltro, non era più articolata nei due ordines che avevano governato la cristianità fino alla crisi dei poteri che si registra a partire dal XIII secolo in Europa, ma già quella dei piccoli Stati italiani, i quali saranno per duecento anni ancora i veri protagonisti della scena politica e i modelli pratici per la riflessione propriamente repubblicana sulla politica fino e oltre Machiavelli. L'attenzione di Marsilio verso il consenso dei governati, l'indicazione di forme di autogoverno da esercitarsi in piccole entità territoriali, la felicità terrena degli individui come obiettivo pratico fondamentale fanno da sfondo a una nuova definizione della libertà umana che Marsilio mette a punto nelle Quaestiones sulla metafisica e sviluppa più tardi nella sua opera fondamentale: per lui liber est, qui est gratia sui, senza che si debba necessariamente ipotizzare la collaborazione di Dio all'autorealizzazione dell'uomo, nè tantomeno si debba pensare alla libertà umana come orientata a un bene esclusivamente ultraterreno. La politica, intesa davvero come attività umana per eccellenza, surclassa la vocazione contemplativa che gli scolastici avevano attribuito alla vita umana e si realizza in una comunità di individui liberi, associatisi liberamente in vista di una tranquillità, di una "felicità civile" e di una sufficienza materiale da perseguirsi in comune; la politica così intesa è quindi per Marsilio un'ipotesi irraggiungibile per "quei cittadini che sono oppressi o caduti in schiavitù per opera di aggressori esterni" (Il difensore della pace, I,5,8, p.130).

Questa visione decisamente più "laica" della politica contrappunta l'intera riflessione di autori decisivi del canone repubblicano quali Coluccio Salutati, Leonardo Bruni e Alamanno Rinuccini, nella cui opera si mescolano suggestioni classiche, assieme a un radicale ripensamento della lezione politica ereditata dagli antichi. Salutati, cancelliere della repubblica fiorentina dal 1375 al 1406, elabora un modello di politica in cui si intrecciano la riprovazione per il governante ingiusto e irrispettoso delle leggi e la difesa dei liberi ordini della città, dove la libertà è identificata con il "dolce freno" imposto dalle leggi a tutti i cittadini: è in particolare nel suo De Tyranno che troviamo rispecchiata un'alta coscienza della vita civile di una repubblica nella realtà concreta della vita cittadina di Firenze. Una lezione ampiamente ripresa e approfondita da Bruni, che collega l'elogio della libertà dei Fiorentini – in particolare condotto nella Laudatio Florentinae urbis- all'esigenza dell'autogoverno, nonché all'indipendenza dall'esterno. La libertà della città si preserva, egli scrive nell'Historiarum Florentini populi libri XII, allorché le leggi sono più forti dei singoli cittadini. Più attenta – anche in ragione di una sofferta vicenda biografica – al tema della libertà, è la riflessione di Alamanno Rinuccini, il quale compose nel 1479 il dialogo De libertate in cui, per bocca di Aliteo, pronuncia una lode aperta del "vivere politico et civile", che trova il suo fondamento nella giustizia e nelle buone leggi, nonché nella libertà voluta e ricercata con fortezza e determinazione contro quei tiranni che paiono invece assecondare l'accidia e la viltà dei cittadini chiusi nel cerchio angusto delle loro passioni private e disamorati del loro bene più grande, ovverossia di quegli ordini e di quei costumi che limitano e orientano una saggia e responsabile ricerca della felicità. Nella medesima vena Rinuccini sottolinea, inoltre, l'importanza della libertà di parola, che contraddistingue le libere repubbliche, mentre sotto un tiranno regna ovunque un freddo silenzio.

Ma è nella Vita civile di Matteo Palmieri che troviamo compendiati tutti gli elementi costitutivi del canone repubblicano, ben raccolti intorno a un'ampia concezione antropologica che si svela attraverso una suggestiva descrizione della natura umana e della sua vocazione pratica e civile, e che fa da sfondo allo studio di quella "vita civile" che costituisce la miglior forma di associazione umana che sia data sulla terra. L'analisi delle virtù, che tanta parte occupa nell'opera, prelude quindi alla trattazione dell'esistenza associata "de' civili" e questa, solo nella misura in cui è veramente libera, può provvedere alla piena realizzazione di un'esistenza intrinsecamente virtuosa: "la natura d'ogni virtù è procedere dall'animo libero" (p.107). E non vi è libertà dove vi siano discordie e divisioni, dove la vita sia soggetta all'obbedienza servile a un potere che tenga in disprezzo le leggi e l'onore della città: e in una città come in uno Stato, anche "singulare et amplissimo" come quello di Roma in età imperiale, sono le divisioni, gli scandali e le "discordie gravissime" a mettere in pericolo "la dolce libertà" dei cittadini, fondamento della "cittadinesca concordia" e del "politico vivere" (pp.136-137).

Libertà che ricorre come tema dominante nella proposta di Girolamo Savonarola, il quale ripensa – negli anni difficili che seguono le campagne italiane di Carlo VIII e la fine di una politica italiana di Stati e di libere repubbliche – una nuova politica per Firenze, e la ripensa nella forma di una renovatio radicale, dei costumi, degli ordini, dell'idea stessa di cittadinanza, che potesse restituire una dignità perduta ai Fiorentini al di là di ogni considerazione di opportunità sulle alleanze da stringere con Stati e principi stranieri: il problema politico essenziale alla soluzione della situazione fiorentina stava allora, per il Savonarola, non nell'individuazione di opportunismi e tattiche da effettuare in un calcolo strumentale dei costi e dei benefici, ma nell'acquisizione, da parte di ognuno, di una maggiore consapevolezza religiosa, che si sarebbe dovuta tradurre in un decisivo anelito di "vera libertà", da consumare all'interno di una struttura politica che non sempre pare essere assimilata alla forma repubblicana, anche se alla perfezione della monarchia di Cristo, Savonarola contrappone la convenienza – in rispetto al temperamento libero e all'attitudine politica dei Fiorentini – del reggimento popolare.

La geniale capacità innovativa che viene solitamente riconosciuta a Machiavelli, tanto da farne il discrimine tra pensiero politico antico e moderno, risiede nella capacità di trarre le estreme conseguenze dalle virtù civiche: per amor di patria – egli afferma – è lecito dannarsi l'anima. Per il resto egli ha fatto spesso ricorso ad argomentazioni tradizionali elaborate dagli umanisti. Nel Principe egli ha mostrato, con scandalosa coerenza, come la salus reipublicae costituisca il fine ultimo dell'azione dei governanti, l'unico fine che giustifica i mezzi impiegati (cfr. Discorsi III,41). La conservazione dello Stato rappresenta però il livello minimo, la condicio sine qua non, della politicità; la politica consente all'uomo di raggiungere fini ben più alti, quali la grandezza della comunità politica e la gloria dell'uomo politico. Questi temi sono invece esposti con agio nei Discorsi, dove si discorre effettivamente di "politica" nel senso tradizionale, classico e umanistico, del termine. Qui Machiavelli vede nei tumulti, nelle lotte tra patrizi e plebei, uno dei fondamenti della libertà della Roma repubblicana, mettendo in questione quella tradizione che, a partire da Cicerone, l'aveva ascritta alla concordia ordinum (I,2;4). Questo effetto positivo e creatore di libertà delle discordie sociali a Roma è da Machiavelli attribuito alla mancanza di corruzione nel popolo romano: la medesima discordia nella "corrottissima" Firenze a lui contemporanea aveva prodotto solamente lotta tra fazioni nobiliari e perdita di libertà e potenza per la città. Fondamentale importanza per conservare la libertà di una repubblica ha poi l'istituzione, regolata dalla legge, di meccanismi che consentano ai cittadini di denunciare arbitri subiti o violazioni della libertà, senza ricorre a mezzi extra-legali o a calunnie: "accusansi gli uomini a' magistrati, a' popoli, a' consigli; calunnionsi per le piazze e per le logge [..] e dove non è bene ordinata questa parte, seguitano sempre disordini grandi" (Discorsi I,8). La libertà, il "vivere libero", gli appare il presupposto fondamentale per raggiungere la grandezza politica: "E facil cosa è conoscere donde nasca nè popoli questa affezione del vivere libero: perché si vede per esperienza le cittadi non avere mai ampliato nè di dominio nè di ricchezza se non mentre sono state in libertà" (II,2). E il vivere libero è possibile solo in una repubblica che si auto-governa, dove gli individui hanno a cuore il bene comune e promuovono la grandezza della comunità politica, dove delle buone leggi consentono a tutti i cittadini di vivere su un piano di uguaglianza secondo i propri desideri, i nobili alla ricerca del potere, gli "ignobili" della sicurezza. Occorre notare, infatti, come Machiavelli avesse chiaramente compreso che anche nelle repubbliche il vivere libero ha nella realtà due significati: per alcuni (una ristretta minoranza) vuol dire la possibilità di accedere ai posti di comando (quasi un'anticipazione della teoria dell'élite); per la maggioranza, però, significa semplicemente attendere ai propri affari con sicurezza (I,16). È dunque necessario "costituire una guardia alla libertà" per prevenire la tirannide (I,5), che nasce sempre "da troppo desiderio del popolo d'essere libero, e da troppo desiderio dè nobili di comandare" (I,40): tale è il governo della legge, che impone la "pari equalità", che impedisce il predominio dei "gentiluomini" e induce la plebe alla moderazione (I,58), preservando così il "vivere politico e incorrotto" (I, 55).

Machiavelli si domanda poi perché in passato gli uomini fossero più "amatori della libertà" e ne attribuisce la cagione a una scorretta interpretazione della religione cristiana, tendente a esaltare le virtù di umiltà e contemplazione, e agli "esempli rei" dei preti e della Chiesa romana (I,12): così si è "effeminato il mondo e disarmato il Cielo", mentre la religione antica "non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria" (II,2). Machiavelli generalmente contrappone la libertà nella repubblica alla schiavitù sotto un tiranno. Questo non contraddice l'elogio del principe pronunciato nell'opera omonima, perché il principe, e segnatamente il principe nuovo, ha il compito primario di creare le condizioni minime del vivere politico. La corruzione, ossia la sistematica violazione della legalità e la presenza di individui al di sopra della legge, rappresenta l'elemento discriminante: un popolo corrotto non potrà mai vivere libero (I,16) e raggiungere la grandezza politica, perché i cittadini perseguono il proprio egoistico bene trascurando quello comune: "perché non il bene particulare ma il bene comune è quello che fa grandi le città" (II,2). Allorché la corruzione dilagò a Roma e i cittadini "divennero cattivi, [..] solo i potenti proponevano leggi, non per la comune libertà ma per la potenza loro" (I,18). Quando la materia è corrotta e la città ha "poca attitudine alla vita libera", è necessaria una mano regia o quasi regia e il ricorso a "grandissimi straordinari" (I,17-18).

Il medesimo rammarico già avvertito nelle pagine che chiudono il Principe si avverte nel "proemio" al Dialogo del reggimento di Firenze di Francesco Guicciardini, che consegna ai Fiorentini la sua lezione che è assieme di politica e di storia in un momento di incertezza e di trasformazione, di crisi e di accorato rimpianto in un'età – quella delle origini popolari e repubblicane di Firenze – che ognuno, nel suo intimo, sapeva irrimediabilmente perduta: Guicciardini, nel Dialogo, lamenta innanzitutto la poca somiglianza dei costumi e delle leggi corrotte dalla cattività medicea con quelle di una repubblica ideale e pare confidare apertamente nel libero corso delle cose umane affinché Firenze possa un giorno ritrovare "uno governo onesto, bene ordinato, e che veramente si potessi di chiamare libero" (p.300) benché "per la autorità che hanno è Medici in Firenze, e per la potenza grandissima del Pontefice paia perduta la libertà di quella" (ibidem). Il metodo storiografico di Guicciardini segue il filo del confronto serrato tra antichi e moderni, tra l'età in cui i diversi ordini di Roma governavano in armonica collaborazione e lo stato di afflizione proprio dei tempi presenti, in cui l'uomo di lettere in pena per le comuni sorti della sua città sta appartato in febbrile attesa di una schiarita, di una viva trasformazione che potesse riguardare ancor prima gli uomini dei governi, "perché – scrive Guicciardini – come il governo cominciassi a essere amato e a venire in riputazione, e che si vedessi che el dimostrare gli uomini ingegno e amore della libertà gli facessi crescere, forse che la natura farebbe per sé medesima che gli uomini in magistrato o privati piglierebbono di questi assunti contro à cittadini perniziosi e pericolosi alla libertà" (p.459).

Negli anni che segnano la fase aggravata della corruzione interna e della dissoluzione del potere mediceo a Firenze vengono meditate, all'interno delle riunioni degli Orti Oricellari, proposte destinate a formare il quadro della tarda riflessione politica fiorentina, che apparirà dominata da un vivo richiamo della tradizione della filosofia civile. Oltre alle voci di Antonio Brucioli e di Bartolomeo Cavalcanti è nella Republica fiorentina di Donato Giannotti che possiamo riconoscere l'appassionata ricerca di un'arte politica in cui si presenta viva l'opposizione tra una repubblica che assimila i cittadini a rotazione nelle sue cariche e una tirannia che abbruttisce e opprime i sudditi privandoli della sicurezza oltre che della libertà: e una città in cui il reggimento politico abbia consolidate tradizioni repubblicane è – scrive Giannotti – "una congregazione civile d'uomini liberi" (p.143).

È da sottolineare come questa libertà sia comunque una libertà pubblica, comunale, quella a cui pensa Paolo Paruta nel suo trattato Della perfezzione della vita politica, per il quale "chi cerca di ben vivere, non pur ha da pensare a se medesimo ma insieme alla città" (p.149). Ovverossia al luogo per eccellenza dell'esercizio responsabile di una libertà che non sia semplicemente ritagliata per gli ozi e gli uffici privati e che si ritrova perfettamente rappresentata nella figura di Catone Uticense, il quale, "essendosi dipartito da Roma con animo di starsi nelle sue ville lontano dalla repubblica, poiché intese Metello, uomo fazioso e ardito, venire alla città per chiedere il tribunato, mutato pensiero: Non è più tempo, disse, di darsi all'ozio, lasciando crescere la potenza di costui con danno della libertà pubblicà" (p.150).

Di una libertà di specie diversa si comincerà a dibattere in Inghilterra negli anni che preparano lo scoppio della guerra civile, quando matura, accanto a proposte diversamente ascrivibili ai partiti e alle fazioni direttamente schierate sul campo, un'alta presa di coscienza del senso del conflitto politico, nella forma della filosofia politica di Thomas Hobbes. In particolare, è nel Leviatano, la sua opera filosofica certamente più matura, che ricapitola e precisa posizioni già espresse nei precedenti Elements e De cive, che Hobbes dà un'originale definizione della libertà, ponendosi in netta alternativa rispetto a quel canone repubblicano che non mancherà di essere prontamente ripreso e rilanciato da autori ad Hobbes contemporanei, talora personalmente schierati contro di lui.

Nel capitolo XXI del Leviatano, "Della libertà dei sudditi", si legge che la libertà è propriamente "l'assenza di opposizione": un criterio, questo, che può essere applicato "non meno alle creature irrazionali e inanimate che a quelle razionali" (p.205). Per quanto riguarda la libertà che qui conta, quella delle creature razionali, essa in ragione della generalità del principio che ne definisce la natura, si determina in relazione agli impedimenti e ai vincoli ai quali quelle creature sono soggette. Ed è solo in relazione a questi vincoli (catene artificiali chiamate leggi civili) che si può parlare di quella "libertà naturale che, sola, è propriamente chiamata libertà" (p.207): infatti, procede Hobbes, "dato che non c'è al mondo uno stato in cui siano stabilite regole sufficienti per regolare tutte le azioni e tutte le parole degli uomini (cosa che è impossibile) segue necessariamente che in tutti i generi di azioni non menzionate dalle leggi, gli uomini hanno la libertà di fare ciò che la ragione suggerirà loro come più giovevole a loro" (pp.207-208). Dunque una libertà "negativa", totalmente privata di quella creatività che caratterizza la libertà politica, "positiva", dei repubblicani: una libertà che "si trova perciò solo in quelle cose che il sovrano, nel regolare le loro azioni [scil. dei sudditi], non ha menzionato" (p.208; mio il corsivo).

Ma se guardiamo al peso e allo spessore teorico di proposte che segnano in profondità il dibattito politico, appare essere Machiavelli il grande spartiacque delle ideologie politiche inglesi per tutti gli anni che segnano la preparazione e lo scoppio della guerra civile. Una prima significativa testimonianza di questa attenzione per un autore che, nel preciso contesto dei dibattiti che hanno luogo in Inghilterra in quegli anni, veicola un universo concettuale estraneo alla sensibilità politica e culturale inglese (per poi, nel corso degli anni, trovarvi un sorprendente radicamento) è data dall'opera di James Harrington, Oceana, che vede la luce nel 1656. Qui, il tema della libertà è fuso con l'evocazione suggestiva di una repubblica che ci pare per molti versi ricalcata sulla traccia della letteratura utopistica fiorita sul continente a partire dal secolo precedente.

Sarà, con una maggiore attenzione al dato empirico, Algernon Sidney, nei Discourses concerning Government pubblicati dopo la sua morte, a intrecciare una narrazione intorno all'origine dei governi in polemica con Robert Filmer che, nel Patriarcha, aveva sostenuto il diritto divino dei re; qui sono inoltre rintracciabili temi notorii del canone repubblicano, come l'opposizione tra esercizio virtuoso della libertà positiva e la schiavitù propria di coloro, come le popolazioni degli Assiri e delle altre nazioni orientali, che non hanno conosciuto istituzioni stabili e ordinate. Sidney estende ai Romani il suo discorso, e l'intera sezione XII del libro – intitolata "The Glory, Vertue and Power of the Romans, began and ended with their Liberty" (p.112) – consiste in un'accurata perorazione a favore delle libertà antiche, dalle quali procedette ogni bene per le generazioni che seppero goderne; così, afferma Sidney, "I dare affirm that all that was ever desirable, or worthy of praise and imitation in Rome, did proceed from its Liberty, grow up and perish with it" (ibidem).

È evidente che "libertà" per questi autori è molto più un impulso creativo che non la semplice definizione di un diritto oggettivo; esprime cioè una possibilità di comportamento, ma già collocata nell'orizzonte di una sua positività etica, quindi non indifferente a quelle esigenze di eccellenza e di gloria che si avvertono sullo sfondo, vere e proprie costanti, di queste pagine repubblicane. E la medesima tensione civile si respira nel dialogo, composto alcuni anni più tardi dei Discourses di Sidney, Plato redivivus di Henry Neville, in cui è ripreso, in apertura – e nella forma di dialogo tra un nobile veneziano e un gentleman inglese – il tema sidneiano dell'origine del governo, che non può essere ricalcata sul modello di un dominio del padre sul figlio che viene trasmesso, senza che vi siano limiti costituzionali a un tale potere dispotico, ai sovrani futuri.

Non distante da una simile concezione, ma appartenenti a una generazione successiva, sono autori come Robert Molesworth, Walter Moyle, John Toland e Scot Andrew Fletcher, nei quali vediamo fondersi, alla distintiva ammirazione per le antiche repubbliche, l'attenzione per i problemi dell'ora, gli attacchi all'istituto dello standing army e all'establishment ecclesiastico. È in particolare Moyle, nel suo Essay upon the Constitution of the Roman Government, a esprimere un dissenso, tipico del canone in esame, nei confronti di ogni ingerenza del potere ecclesiastico nell'azione dei magistrati civili: "the government of religion being in the hands of the state, was a necessary cause of liberty of conscience" (p.214), sulla base di una equiparazione sistematica delle istituzioni inglesi con quelle, reputate esemplari, della Roma repubblicana e a fissare, nella difesa libertà di coscienza, uno dei cardini del suo programma ideologico. È difficile sottovalutare l'importanza che la nozione di libertà riveste nel pensiero filosofico e politico di Spinoza. Nella sua declinazione etica e in quella politica essa costituisce il fine e il valore supremo al quale devono mirare gli sforzi degli individui, sia singolarmente sia nella loro azione più propriamente politica. Nel Trattato teologico-politico, pubblicato anonimo nel 1670, la rivendicazione della libertà di pensiero e di parola costituisce l'asse portante dell'intera opera, unitamente alla asserzione della possibilità di edificare una comunità politica nella quale tali libertà trovino piena realizzazione. Qui egli opera una drastica quanto significativa identificazione della libertà con lo Stato politico, cui concorrono in misura determinante le leggi (cap.3). Preliminare e precedente questa libertà politica è, però, la libertà individuale che consiste essenzialmente nella facoltà di libero pensiero: di qui l'amore per la conoscenza che conduce all'accettazione consapevole della struttura del reale e alla negazione del libero arbitrio; di qui la lotta contro le passioni che non consentono un pieno esercizio della libertà della mente; di qui la lotta contro il pregiudizio che ottenebra la mente, condotta in nome di una nuova, corretta interpretazione della Sacra Scrittura fondata sull'identificazione dei rispettivi ambiti di teologia e filosofia. La concezione politica spinoziana, come la sua visione etica peraltro, sono situate all'interno di una concezione metafisica nella quale la legge di determinazione causale ha un ruolo centrale: la libertà è da lui concepita come razionalità e non può pertanto essere disgiunta dalla conoscenza. La libertà civile risiede esclusivamente nell'esercizio della libertà di pensiero e di parola: di conseguenza, il cittadino attiverà tale sua libertà partecipando al dibattito politico ma agirà politicamente esclusivamente attraverso i propri rappresentanti. Già nella Prefazione Spinoza afferma che scopo dell'opera è mostrare come la libertà di pensiero e di culto sia "non soltanto compatibile con la pietà e la pace dello Stato, ma anzi non può essere soppressa senza pregiudizio della stessa pietà e della stessa pace dello Stato" (p.4). "libera in sommo grado è quella repubblica che ha le sue leggi fondate sulla retta ragione" (cap.16); il governo democratico è "il più naturale e il più conforme alla libertà" perché tutti gli uomini continuano a godere della medesima uguaglianza che vigeva nello stato di natura. Egli conclude che "il vero fine dello Stato è la libertà" (cap.20), che è innanzitutto libertà di giudizio e libertà di parola.

Montesquieu, sulla scia di Machiavelli e in contrasto con Bossuet, ritiene che i contrasti politici del popolo romano furono la fonte della sua libertà: negli Stati dove i cittadini sono tranquilli la libertà è morta. Riprendendo un pensiero di Cicerone nel De Republica, egli ritiene che la vera unione politica consista nell'armonia. Fin dall'inizio dello Spirito delle Leggi individua nella libertà l'essenza dell'umanità, quella libertà che induce l'uomo a violare le leggi divine e a mutare quelle umane. I libri XI e XII sono dedicati alla libertà politica, nei suoi rapporti con la costituzione e con il cittadino, rispettivamente. Egli osserva preliminarmente che la libertà non deve essere identificata con una forma di governo nè con la possibilità di fare tutto ciò che si vuole; quando si fà così, ad esempio nel caso della democrazia, si confonde "il potere del popolo con la libertà del popolo" (XI,2). Egli definisce perentoriamente la libertà come "il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono" (XI,3), individuando nelle leggi il limite e la garanzia, a un tempo, della libertà individuale. La libertà politica, poi, consiste in una condizione di tranquillità di spirito indotta nel cittadino dalla percezione della propria sicurezza, sicurezza determinata a sua volta dall'ordinamento dello Stato: la libertà politica è così legata alla divisione dei tre poteri fondamentali esistenti all'interno di ogni comunità politica; ogniqualvolta vi è commistione tra i tre poteri o essi sono riuniti in una sola persona o in un solo corpo, la libertà è perduta. Montesquieu afferma quindi che la costituzione inglese garantisce più di tutte la libertà del cittadino, anzi è orientata a questo fine. Egli giunge a questa provvisoria conclusione: "Poiché, in uno Stato libero, qualunque individuo che si presume abbia lo spirito libero deve governarsi da sé medesimo, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse il potere legislativo" (XI,6). Tuttavia, vista l'inevitabile esistenza di aristocrazie all'interno di ogni Stato, il potere legislativo deve essere affidato in parte anche ai nobili, perché non costituiscano un corpo estraneo all'interno dello Stato. Il potere esecutivo, d'altra parte, deve essere nelle mani di un monarca. Una siffatta divisione dei poteri è alla base della libertà politica; essa è visibile nel tradizionale ordinamento costituzionale inglese; lì deve essere cercata la libertà, oltre che nei boschi d'oltremanica. Tuttavia, sebbene l'ordinamento costituzionale dello Stato, ossia la disposizione delle sue leggi fondamentali, costituisca la cornice della libertà del cittadino, essa deve essere attuata sulla scorta di leggi particolari, e segnatamente delle leggi penali: "dalla bontà delle leggi penali dipende principalmente la libertà del cittadino" (XII,2). Montesquieu è poi convinto che l'entità dei tributi incida sulla libertà del cittadino o, meglio, che i tributi debbano essere commisurati alla libertà di cui gode il popolo, sia nell'entità sia nella specie: i sovrani dispotici devono imporre tasse lievi. Nel frammento Sulla libertà politica Montesquieu osserva con distaccato realismo che la parola libertà "non esprime propriamente altro che un rapporto" e non distingue le diverse specie di governo: la libertà dei poveri è la servitù dei ricchi e può essere presente sia nelle monarchie moderate come nelle repubbliche. Il tema della libertà costituisce uno dei cardini della concezione politica di Voltaire, dove viene spesso declinato in contrapposizione al governo arbitrario o tirannico. Nelle tragedie giovanili Bruto e La morte di Cesare, la libertà politica viene associata al tirannicidio. La prima, scritta sulla scorta delle suggestioni riportate dalla propria permanenza in Inghilterra e rappresentata per la prima volta nel 1730, divenne poi durante la rivoluzione uno dei simboli della libertà repubblicana. In essa ritornano molti dei temi del repubblicanesimo romano, come l'elogio della libertà repubblicana, nata dalla cacciata dei re, e l'odio per la monarchia, sentimenti che spingono il protagonista Bruto a reputare più importante la libertà della patria rispetto alla vita del figlio. È importante sottolineare come Voltaire rifugga dall'usuale identificazione della libertà con la forma di governo repubblicana; anche la monarchia può essere un'ottima forma di governo, se i cittadini godono di una libertà pubblica delimitata dalle leggi. Temi analoghi ricorrono nella Morte di Cesare, opera che mostra chiaramente l'influenza di Plutarco e del Giulio Cesare di Shakespeare, dove, grazie alla più articolata complessità dell'intreccio e al maggiore approfondimento psicologico dei personaggi, Voltaire evidenzia in tutta chiarezza i sacrifici che l'amore e la scelta della libertà impongono all'individuo. È da notare come, nonostante l'ambientazione classica, Voltaire sia fautore della libertà del cittadino dello Stato moderno, concepita, sul modello della libertà inglese, come obbedienza alle giuste leggi elaborate dallo Stato: "essere liberi significa dipendere soltanto dalle leggi" (Quesiti sull'Enciclopedia, Governo inglese). La giustificazione del tirannicidio in nome della libertà del popolo ricorre, con accenti più sfumati, anche in altre opere, dove viene ampliata la nozione di tirannide, per includere, ad esempio, quella contemporanea esercitata dai corpi intermedi nell'opporsi al potere sovrano.

Jean-Jacques Rousseau ha il merito di aver riproposto, con la potenza della propria retorica e l'appassionato afflato etico che lo contraddistingue, molti degli ideali classici della tradizione repubblicana. Essi riecheggiano nella lettera dedicatoria del Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza: la necessità della virtù civica per avere un buon governo, la quale consiste essenzialmente nella partecipazione alle cose pubbliche per amore della propria patria; il conseguente ideale dell'auto-governo, inteso come partecipazione di tutti i cittadini al potere legislativo, che si può realizzare solamente nelle piccole comunità politiche; l'esaltazione delle piccole repubbliche, come la città di Ginevra, nelle quali soltanto può esservi amore tra i concittadini, garanzia di pace e libertà sia all'interno sia nel rapporto con gli altri Stati. Egli apre il Contratto sociale con la celebre frase "L'uomo è nato libero e ovunque è in catene". Ricercando l'origine di questa schiavitù, egli la vede sorgere dalla proprietà privata e dall'ineguaglianza di ricchezza che caratterizzano la società civile di contro alla completa indipendenza di cui l'uomo godeva nello stato di natura. Questa è l'idea centrale che ritorna in tutte le opere di Rousseau: la società distrugge la libertà naturale dell'uomo; soltanto la buona società può ricompensarlo di questa perdita offrendogli la sicurezza della libertà civile sotto la legge e infondendo in lui la libertà morale (I,8). Egli prosegue affermando che "rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla propria qualità di uomo, ai diritti dell'umanità, e perfino ai propri doveri" (I,4). Dall'assioma della libertà originaria dell'uomo Rousseau deduce che qualunque autorità politica legittima debba fondarsi necessariamente su qualche forma di convenzione: inizia così ad emergere il tema del patto "in virtù del quale un popolo è un popolo" (I,5), anteriore a qualunque governo. La sovranità della volontà generale, la quale esprime la volontà di ciascun individuo retto, nella società politica garantisce la libertà del cittadino. Dal momento che il corpo sovrano nasce dal contratto sociale che impegna tutti gli individui a perseguire l'interesse comune, nessuno può opporsi a esso: "chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; [..] lo si obbligherà ad essere libero" (I,7). Questo paradosso, precorritore della robespierriana "tirannide della libertà" secondo alcuni interpreti, deriva dalla convinzione che solo nello stato civile sia possibile quella libertà morale che, sola, rende l'uomo veramente uomo: uscendo dallo stato di natura l'uomo abbandona una condizione di indipendenza, la libertà naturale, per godere della libertà civile. Rousseau dà, poi, una delle più compiute esposizioni della sua visione della libertà nelle Lettere dalla montagna. Qui ritorna la sua distinzione tra l'indipendenza che contraddistingue l'uomo nello stato di natura e la libertà di cui gode nella società; egli ammonisce di non confondere la libertà con l'indipendenza: "La libertà non consiste tanto nel poter fare la propria volontà, quanto nel non essere soggetti alla volontà degli altri"; la libertà deve dunque sempre essere accompagnata dalla giustizia e non può esistere al di fuori della legge. "In una parola – egli conclude – la libertà segue sempre le sorti della legge; essa fiorisce o muore con lei" (Lettera VIII).

Gabriel Bonnot de Mably, sebbene sia stato spesso definito il più severo dei repubblicani francesi, ritiene che soprattutto una forma di governo mista possa salvare i Francesi dal dispotismo, restituendo loro la libertà. Egli enuncia la teoria dell'ancienne libertè nel suo Dei diritti e dei doveri del cittadino: "Noi Francesi eravamo liberi, liberi come lo siete oggi in Inghilterra; [..] i nostri padri hanno venduto, regalato e lasciato distruggere la nostra libertà; continuando a disprezzarla noi la dimenticheremo" (I lettera); oggi noi viviamo in uno stato di sottomissione. La libertà si definisce in positivo come autogoverno: "parliamo della libertà francese e vogliamo non essere schiavi, come se per un popolo vi fosse un modo di essere liberi diverso dall'essere il suo proprio legislatore"; in negativo essa si definisce in contrapposizione alla tirannide: "il dispotismo inizia dove finisce la libertà" (II lettera). L'amore per la libertà viene concepito come la fonte di ogni bene, ma deve essere unito all'amore per le leggi, altrimenti prevalgono le passioni e si genera la tirannide (IV lettera). Egli evidenzia poi l'importanza dell'educazione per creare cittadini liberi e la necessità di diversi tipi di magistrati sottoposti alla legge per conservare la libertà (VII lettera), senza la quale non vi può essere benessere (VIII lettera). Nei Discorsi di Robespierre si compie il rovesciamento retorico di una delle contrapposizioni fondanti il pensiero politico occidentale: il regime rivoluzionario viene infatti da lui caratterizzato come "dispotismo della libertà", in contrapposizione alla reale tirannide rappresentata dalla monarchia assoluta. Egli, identificando la repubblica con i valori della patria e della libertà, attribuisce a questo termine un significato nuovo, svincolato da una precisa tipologia delle forme di governo: "La parola repubblica – egli afferma – non significa alcuna forma particolare di governo, essa risponde a ogni governo di uomini liberi, di coloro che hanno una patria". La sua asserzione è analoga a quella di Desmoulins, che considerava la repubblica "uno stato libero con un re o uno statholder o un governatore generale oppure un imperatore" (Revolutions de France et de Brabant, 1791). Nell'infuocata oratoria di Saint-Just ricorrono molte figure retoriche mutuate dal pensiero repubblicano classico. Egli può così affermare che "la calma è l'anima della tirannide, la passione quella della libertà". Un popolo è libero quando è sovrano; la libertà dei cittadini consiste nel dipendere da leggi ragionevoli; la perfetta libertà si identifica pertanto con la forma di governo democratica. Riprendendo un tema caro a Rousseau, egli afferma che l'indipendenza è tipica dello stato di natura, la libertà della condizione civile.

La prima libertà che Immanuel Kant rivendica in nome degli ideali politici dell'Illuminismo, da lui concepito come uscita dell'uomo da uno stato di minorità che deve imputare a se stesso, è la libertà "di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi" (Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?: 52): una libertà di parola che costituisce il presupposto necessario di ogni opera di Aufklärung del popolo nonché l'unica difesa dei diritti del popolo. La libertà dell'individuo in quanto uomo ha poi un ruolo fondamentale nella sua costruzione teorica dello stato civile, in quanto ne costituisce uno dei principi a priori. A lui dobbiamo una delle più suggestive definizioni della libertà umana, concepita come possibilità di perseguire la propria personale immagine della felicità: l'idea che "nessuno può costringermi ad essere felice a suo modo" (Sopra il detto comune..: 78) si traduce in una recisa condanna di ogni governo paternalistico che, trattando i sudditi come figli minorenni, si arroghi il diritto di scegliere per il loro bene: l'imperium paternale è per lui la peggior forma di dispotismo. Nella sua visione questo "spirito di libertà" deve essere incarnato e difeso dalla costituzione, la quale deve ispirare una razionale e spontanea obbedienza alle leggi coattive dello Stato: di qui discende la "libertà legale", ossia la facoltà di non obbedire ad altra legge che non sia quella a cui tutti i cittadini hanno dato il proprio consenso.

In una vena simile e con un'analoga visione autenticamente liberale Alexis de Tocqueville condanna il dispotismo paterno come la più perversa forma di governo che possa toccare gli uomini, e proprio quella che le società democratiche debbono maggiormente temere. Questo regime, infatti, si prende cura della vita dei sudditi fin nei minimi dettagli, ma così facendo li lascia sempre in statu pupillari: non toglie loro la forma esteriore della libertà ma ammorbidisce, piega e dirige le loro volontà; non li riduce in schiavitù, ma lascia loro solamente la libertà di "procurarsi piaceri minuti e volgari di cui nutrono la loro anima". Questo dispotismo può instaurarsi nei popoli democratici perché i cittadini delle democrazie sono proni a rinchiudersi all'interno del cerchio ristretto della parentela e delle amicizie intime, paghi del loro "materialismo onesto" e poco inclini alle grandi idealità e all'impegno pubblico. Al dispotismo paterno fà da pendant sul piano sociale quella che Tocqueville chiama la "tirannide della maggioranza", ossia il potere occulto dell'opinione pubblica che può indurre al conformismo. Questa tirannide non usa più strumenti primitivi quali catene e carnefici, "abbandona il corpo e punta diritto all'anima", traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero per stabilire ciò che è lecito e conveniente e ciò che non lo è: al di fuori di questo cerchio di opinioni convenzionali, l'individuo è libero ma isolato, uno straniero senza più patria.

I repubblicani americani usavano nomi fittizi tratti da Plutarco ma non condividono il suo repubblicanesimo aristocratico. Essi ribaltano una delle convinzioni predilette del pensiero politico europeo, criticando il presunto "spirito pacifico" delle repubbliche: essi mostrano, infatti, come le cause di ostilità tra i popoli non siano rimosse o alterate dalla loro forma di governo (n.6). Essi vedono nella separazione e distinzione dei vari poteri la garanzia essenziale della libertà; esecutivo e legislativo si controllano a vicenda. Di più, in America l'esistenza di un governo federale al di sopra di quello dei singoli Stati è un'ulteriore, doppia garanzia della libertà del popolo.

 


Bibliografia.

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