C.U.S.R.P. - Queste guerre
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Queste guerre

Pietro Ingrao ha ricevuto ieri la laurea honoris causa dall'università di Barcellona, come riconoscimento «della sua traiettoria politica e della sua riflessione sulla democrazia». Dopo la presentazione, di Juan Ramòn Capella, Ingrao ha tenuto la lezione che qui pubblichiamo.

 


 

Pietro Ingrao

    Vi ringrazio caldamente per l'alto onore che l'università di Barcellona ha voluto farmi concedendomi questo titolo, e dando una attenzione così generosa alla ricerca culturale e alle riflessioni sulla democrazia,che ho tentato di sviluppare nel corso del secolo tempestoso in cui è trascorsa la mia vita.
    L'emozione è ancora più grande non solo per il posto straordinario che la Spagna e la Catalogna hanno nella storia del mondo, ma per una vicenda particolare, che mi riguarda direttamente.
    Era il luglio del 1936. Avevo compiuto 21 anni. Ero studente alla facoltà di giurisprudenza, nell'università di Roma, nel pieno della giovinezza. L'aggressione del governo fascista italiano alla giovane repubblica spagnola fu il trauma, l'evento sconvolgente che mi sospinse (direi: mi obbligò) alla cospirazione antifascista:a quell'impegno nella battaglia politica che poi ha segnato la mia esistenza.
    Cominciò per me, in quegli anni, un sodalizio con l'antifascismo spagnolo esule, che si prolungò nel tempo, e si accompagnò all'incontro con la trascinante poesia spagnola del Novecento: da Machado, a Lorca, a Rafael Alberti.
    In questo lungo cammino della mia vita ho sperato ardentemente che gli orrori, i massacri, le cataste di vittime che hanno segnato l'epoca che ho vissuto divenissero solo un ricordo amaro: quasi come una vetta di follia a cui ci avevano condotto il capitalismo nella sua febbre dell'epoca fordista e - per la loro parte - gli errori fatali dello stalinismo. E in seguito mi illusi che - di fronte e dopo il crollo dell'Urss - si aprisse finalmente uno spazio nuovo per fermare la corsa alle armi.
    Non fu così. Quando ormai il muro di Berlino era caduto in frantumi, abbiamo visto incredibilmente ritornare la guerra in una zona cruciale del mondo: quella penisola arabica, che è punto di giuntura fra Europa, Asia ed Africa. Oggi la questione della guerra vede un altro scatto.
    Prima c'è stato un torbido, ambiguo passaggio teso a rilegittimare l'intervento delle armi in nome di un bisogno di giustizia. Ricordate: fu la grave azione militare della Nato in Serbia, giustificata in nome della democrazia e della liberazione dei popoli schiacciati dal despota Milosevic. Vennero i giorni dei sermoni sulla «guerra giusta».E qualcuno - in Europa - si spinse addirittura ad evocare un termine supremo ed antico. E parlò di «guerra santa».
    In verità in quella vicenda dei Balcani fu lanciata ed alimentata - almeno da parte di alcuni attori - anche la speranza e l'immagine di una purificazione della guerra: come se essa sganciandosi dal fango del territorio e muovendo nella purezza delle grandi altitudini della atmosfera potesse e volesse colpire soltanto (con la sapienza delle tecniche moderne) i mezzi militari dell'avversario. Fu quella che io ho chiamato l'illusione (o l'inganno) della «guerra celeste». Ne sgorgò - ricordate? - quella rappresentazione consolante del pilota americano che muoveva dalla sponda atlantica e - adempiuto nella calma solitudine dei cieli lo sgancio della bomba intelligente - tornava puro da macchie al focolare domestico, nella patria americana.
    Quale errore! È venuta invece la guerra in Afghanistan e l'attacco dal cielo si è mischiato rovinosamente alla cancellazione delle città, alle stragi dei civili, alla macchina delle armi che si spingeva nel ventre degli altopiani come nei ghirigori della terra. E sono via via cadute amaramente le giustificazioni etiche,le rappresentazioni salvifiche, i sermoni moraleggianti. In verità sino ad ora non sono stati cancellati i vincoli formali che in molte Costituzioni europee e nella Carta delle Nazioni unite vennero posti al ricorso allearmi. Quei vincoli stanno ancora lì: scritti in quelle leggi solenni. Semplicemente accade che essi vengono scavalcati o - di fatto - cassati. Nel mio paese l'articolo 11 della Costituzione, che consente solo la guerra di difesa, è di fatto stracciato: senza che su ciò ci sia né sorpresa, né scandalo: e nemmeno una discussione in parlamento,o un qualche chiarimento da parte del presidente della repubblica, il quale su una tale violazione serba un religioso silenzio. E c'è qualcosa che mi spaventa di più. C'è il fatto che nei nostri paesi il senso comune non si allarma: non trema più. Dobbiamo dirla questa verità amara. Sfogliate i libri, porgete l'orecchio alle parole dei governanti. Scorrete le pagine dei dibattiti parlamentari. Troverete che è sparita la parola «disarmo». Non l'usa più nessuno.
    È in questo senso largo e agghiacciante che io parlo di una «normalizzazione» della guerra. S'è liquefatto lo spavento, l'orrore che scosse la mia generazione e - in quel maggio del 1945 - ci fece giurare che mai più sarebbe tornato il massacro.
    Come mentivamo! Guardate all'oggi: guardate come si discute ora, in questi giorni, apertamente di un attacco all'Iraq, e si invoca la guerra preventiva. E chi ne parla non è un politico scervellato o un gazzettiere fanfarone. La propone oggi al mondo - come compito ineludibile ed urgente - il presidente degli Stati uniti, capo della potenza più grande della terra.
    E ciò avviene senza troppo scandalo. Non si riuniscono in ansia i parlamenti. Non suonano di spavento le campane delle chiese. Né i sindacati preannunciano scioperi. Appunto: è diventata normale, invocata dal paese che si considera guida del mondo,la guerra di prevenzione.

    Su che si è fondata questa rivalutazione e normalizzazione della guerra e perché il pacifismo oggi è una scelta di ristrette minoranze?
    Io voglio solo alludere a una spiegazione che -per comodità e brevità - chiamerò «tecnica». In verità non è nelle mie competenze il vaglio delle grandi innovazioni tecnologiche e dei nuovi saperi che hanno dilatato e rivoluzionato i sistemi d'arma, la trama dei conflitti, la combinazione delle strategie fra terra, mare e cielo. Ho però in mente i mutamenti forti avvenuti nel rapporto politico-sociale tra la vita dell'uomo semplice e delle masse di civili e ciò che è diventata la guerra, a questo passaggio di secolo.
    Mi sembra indubbio che negli ultimi decenni si sia venuta sviluppando (o ritornando?) la connotazione «specialistica»della pratica di guerra. Sembra scomparsa o impallidita quella connotazione totalizzante che essa assunse clamorosamente dall'inizio del Novecento:quel cammino che a partire dal conflitto mondiale del 1914 vide schierati sui fronti di vari continenti milioni di uomini: per anni ed anni, e in una condizione umana radicalmente diversa dal vivere civile: quella guerra di massa nel fango delle trincee che presto venne via via dilatandosi fino a coinvolgere l'insieme delle nazioni, le città lontanissime dal fronte, la vita degli inermi, le donne e i fanciulli. Insomma, la guerra di massa. La guerra mondiale, come la chiamammo.
    Oggi i compiti prevalenti, il nucleo centrale dell'azione bellica sembrano di nuovo affidati a soldati di mestiere: a cittadini e a cittadine che accettano o addirittura chiedono di essere chiamati a praticare la scienza della guerra: con le sue tecnologie raffinate e con i suoi rischi di morte.
    L'uccidere collettivo in nome del potere pubblico torna ad essere compito nobile ed ambito: sotto l'aspetto delle retribuzioni,del rango sociale, del riconoscimento pubblico.
    E l'esistenza di questi corpi specializzati nell'uccidere,in nome della comunità pubblica, appare come una nuova divisione di compiti, che permette ai civili, garantiti da quella protezione e sapienza specialistica, di dedicarsi - diciamo così - serenamente ai compiti di pace. Dunque il soldato Ryan - ricordate il film famoso? - può starsene tranquillamente nella sua città, perché un adeguato«esercito di mestiere» si accolla sulle spalle il cruento e«nuovamente» nobile mestiere della guerra.
    Si potrebbe perciò pensare che questa rivalutazione delle armi e il suo rilancio come nerbo e risorsa centrale della politica poggino sull'operazione di sgravio delle masse dei civili, e sull'allontanarsi- dal loro orizzonte - del pericolo di un ritorno delle prove terribili vissute in due tragiche guerre mondiali (e altre ancora). E si può anche pensare che Bin Laden e il massacro feroce delle Due Torri - consapevolmente e con una sconvolgente audacia - abbiano voluto e tentato di rigettare nella fornace della guerra di massa «i civili» del nemico americano:per seminare nuovamente nel loro animo lo spavento della guerra, la paura di massa dei massacri di massa.
    Fu ciò quella sfida feroce? Non lo so. So che gli eventi terribili a cui ho fatto cenno e l'incalzare dei fatti intorno a noi riaprono domande aspre sul senso e sulle forme che assume la politica nello schiudersi del Terzo Millennio e nell'età della globalizzazione:un età in cui il capitalismo - disaggregati su scala del mondo i momenti del produrre e del consumare - è riuscito a scardinare e a frantumare le nuove soggettività sociali, che nel corso del tragico Novecento avevano messo in discussione i suoi poteri ed i suoi parametri.
    E però - con sorpresa di molti - da questa vittoria non sono sgorgate la primavera del Terzo Millennio e la calma di una stagione sicura delle sue intime regole. Torna ancora sul trono con tracotanza (ma anche con un dubbio interiore) la scienza dell'uccidere,e torna proprio in quel Vertice del mondo occidentale dove - dopo la tragica sconfitta dei «rossi» - sembrava dovesse fiorire una calma saggezza inconfutabile.
    Allora, in quel 1936, il fragore delle armi sulla vostra terra e le macerie di «Guernica» cambiarono la mia esistenza,mi trascinarono nel conflitto. Non pensavo, non avrei mai pensato che avendo avuto la fortuna di vivere quasi per un secolo alla fine sarebbe tornata quella domanda elementare sul diritto e sulle forme dell'uccidere collettivo i propri simili, e che quest'arte venisse oggi presentata addirittura come strumento di «educazione» del mondo: di saggia «prevenzione».

 

il manifesto, 5 ottobre 2002